Una ricerca personale sulle identità e un tentativo di contaminare i margini con nuove energie poetiche ed evocative: è questo il filo conduttore che lega, ormai da decenni, il filmmaker, documentarista e fotografo Nicola Zambelli alla Bulgaria
Come nasce il tuo rapporto con la Bulgaria a livello personale e professionale?
Il mio rapporto con la Bulgaria nasce vent'anni fa, prima con un corso di lingua a Plovdiv e poi con l'Erasmus di un anno a Sofia. Come tanti della nostra generazione, sono un "figlio dell'Erasmus", il programma che ha consentito a tanti di noi un ampliamento dei confini mentali ed esperienziali. Questo seme è poi continuato a crescere e sono tornato varie volte in Bulgaria in diversi stadi della mia vita. Ho potuto confrontarmi con la realtà del paese sia in modo professionale che personale: la Bulgaria è si è trasformata in un vecchio amico e, in qualche modo, in una seconda casa.
Le mie prime esperienze con l'audiovisivo sono state fatte proprio in Bulgaria, esperienze che hanno rappresentato un banco di prova, un’esperienza molto personale che poi mi ha permesso di entrare un questo mondo. Tra i primissimi lavori, alcuni brevi reportage fatti proprio per OBCT nel 2007. Se guardiamo indietro, era ancora una fase di transizione, un'epoca in cui il video non era ancora lo strumento di comunicazione digitale che è diventato oggi, grazie alla rivoluzione tecnologica in atto. Era un formato ibrido, né televisivo né web: oggi riusciremmo ad avere una qualità migliore anche girando con un telefono economico o malfunzionante.
Poco dopo arriva il tuo primo lavoro più impegnativo in Bulgaria, "Cracks" (2018) in cui racconti la quotidianità e i paradossi di Pernik, una città segnata dalla transizione e dalla deindustrializzazione. Che cosa ti è rimasto di quell’avventura?
Quell'esperienza che è stata fatta insieme a Dimitra Kofti, antropologa greca che al tempo lavorava per il Max Planck Institute for Human Science di Halle, in Germania. Dimitra stava studiando come i cambiamenti nei luoghi di lavoro avessero comportato delle trasformazioni antropologiche e sociologiche nella Bulgaria della transizione.
Partendo da questa ricerca, ho trascorso alcuni mesi a Pernik, dove abbiamo realizzato un documentario antropologico. Il lavoro mi ha permesso di mettere sotto la lente di ingrandimento, con una certa precisione, cosa veramente abbiano significato le trasformazioni del tessuto economico e sociale che sono accadute in Bulgaria dopo l'89.
Abbiamo intervistato vecchi lavoratori di grossi Kombinat in stile sovietico e abbiamo messo in evidenza il rapporto tra la nostalgia di un passato idealizzato e le aspettative di un futuro non particolarmente roseo. Da un punto di vista visivo, si imponevano le mastodontiche rovine industriali di cui fino a pochi anni fa Pernik era ancora piena, un intero mondo che in questi anni è rapidamente scomparso.
Nel 2023 sei tornato e hai realizzato "Damore" insieme alla scrittrice Maria Makedonska in un villaggio della Bulgaria nord-occidentale, l'area più spopolata e depressa del paese. Come è nata la vostra collaborazione?
Con Maria ci siamo conosciuti durante una residenza artistica organizzata da “Residenza Baba”, progetto della Ong bulgara "Fabrika za idei" (Fabbrica di idee) che da una decina d'anni invita artisti dalla grande città a visitare le aree più remote della Bulgaria, e in particolare la zona di Vidin. Maria che è una scrittrice di fantascienza, ma molto interessata al folklore. Abbiamo deciso di lavorare insieme, con un progetto che ci ha permesso di coinvolgere delle anziane del villaggio di Pavolche.
"Damore" è una sorta di fiaba documentaristica, con elementi del folklore, canzoni, un rito propiziatorio per la pioggia, ma anche l'utilizzo di alcuni abiti tradizionali nel tentativo di mettere in scena qualcosa del passato che si sta perdendo. Un lavoro che parte dal documentario, linguaggio che sento più mio, per utilizzare il cinema e il linguaggio della fiaba, più vicini invece alla sensibilità di Maria. Il cortometraggio è anche un'azione performativa, con Maria protagonista e mediatrice tra mondi diversi, che cerca di portare insieme anche attraverso il contatto fisico tra lei e le donne del villaggio.
L'obiettivo è suscitare emozioni: da una parte un villaggio come tanti, interessato da fenomeni di spopolamento, di case che crollano, che scompaiono, coll'inaridimento del tessuto connettivo sociale. Dall'altra un rito propiziatorio della pioggia: per noi è una metafora del tentativo di riaccendere processi creativi, di riportare un po' di linfa vitale in questi luoghi attraverso l'arte.
Ma “Damore” è stato solo l’inizio di una collaborazione fruttuosa...
L'idea è quella di proseguire il rapporto di collaborazione che parte da “Damore”: l'anno scorso, sempre grazie a Residenza Baba, abbiamo fatto un ulteriore viaggio nel sudovest della Bulgaria alla ricerca di riti e pratiche ancora parte della tradizioni materiali bulgare.
Ci siamo resi conto che poteva essere interessante esplorare il tema della storia personale di Maria, che è figlia Slave Makedonski, scrittore scomparso vent'anni fa e noto all’epoca per le sue performance e le storie narrate girando tra villaggi e piccole comunità. Abbiamo intuito che lavorare sul far riaffiorare una memoria personale poteva essere l'elemento connettivo per far riemergere una memoria comune.
Anche qui c’è tutto un mondo che sta scomparendo, sia urbanisticamente che umanamente: crollano gli edifici e viene a mancare l'umanità che li riempie. Scompare così l'elemento identitario, narrativo, storico, il significato che diamo a certi luoghi, a certi riti.
Questo è il punto di collegamento tra la storia di Maria e quella di questi luoghi: la memoria del padre permette alle persone di riflettere sulla propria memoria personale, la memoria esiste fino a quando la teniamo in vita e la teniamo in vita raccontandoci storie.
E ora?
Grazie a Culture Movs Europe, questo autunno siamo tornati su quei luoghi per continuare la nostra ricerca e progettare un futuro lavoro con una serie di incontri di interviste, ma non solo.
La pratica artistica che abbiamo portato è duplice: da una parte fotografare le persone di fronte al loro passato. Dall'altra, a partire dai ragionamenti fatti sulla geografia del significato che scompare, per costruire insieme a Maria delle poesie, emerse per così dire dalle nostre conversazioni con gli intervistati, per decostruire la memoria e ricostruirla in maniera creativa.
Attraverso la poesia e il ritratto il tentativo è affidare al tempo questa memoria non più in termini discreti, narrativi, analitici, ma in termini poetici ed evocativi, evocativi.
Come si sono intrecciati il tuo sguardo e quello di Maria?
Lavorare tra due generi ci ha permesso sia di entrare più facilmente nelle case delle persone. L’essere io italiano ha creato poi un elemento di curiosità, gli intervistati si sono sentiti valorizzati, quindi è stato facile ritrarli.
Il lavoro più importante è stato quello di scrivere insieme delle poesie, poesie scritte a due passando attraverso tre lingue, bulgaro, inglese e italiano, che sono in realtà preghiere affidate al futuro: non solo uno sguardo nostalgico verso il passato ma il tentativo di ricreare nel dialogo culturale e nello scambio interpersonale qualcosa di bello, qualcosa che ci unisce.
Nella tua storia con la Bulgaria c'è una evidente fascinazione per i luoghi marginali. Andando alla scoperta dei margini, hai trovato idee ed energie che possono essere ancora utili e vitali?
Non esistono solo i margini geografici ma anche quelli umani. Anche quando sono nella mia Brescia lavoro su questioni e storie ai margini, come quelle dei senzatetto, o un mio progetto in corso sui detenuti. E ho lavorato molto anche sulla Palestina, che oggi è anche ai margini, ma di un altro tipo. Lavorare sui margini ti permette di capire te stesso, di identificare identità personali, culturali e politiche.
Mi interessa molto l'identità. Continuo a interrogarmi a livello filosofico sull'identità, su che cosa ci rende umani, cosa ci tiene umani, cosa cosa genera i conflitti e come generiamo la pace. Cosa dobbiamo tramandare per il futuro? Che senso hanno queste storie? Perché ci sono storie che scompaiono, che lasciamo ai margini? Cosa ci ricordano di noi e perché non le vogliamo vedere? Lavorare sui margini è scomodo per te e a volte per le persone a cui vuoi raccontare queste storie: spesso mette in discussione le nostre sicurezze, ma è fondamentale, perché rigenera il tessuto profondo della nostra identità.
Foto - © Nicola Zambelli