Nel suo libro "Il lago" Kapka Kassabova ci porta sulle rive dei laghi di Ocrida e Prespa - dove ha le sue radici - in un incrocio di confini e di identità che separano e uniscono Grecia, Albania e Macedonia del Nord
Le terre di frontiera hanno spesso confini mobili, il che mette a dura prova l’identità delle persone che le abitano. Gente come me, ad esempio - che ha le sue origini in un bisnonno austriaco, Carlo Zandl, poi diventato Zandel, finito da Trieste, dov’era nato, nell’albonese, in Istria - si è trovata ad essere fortemente condizionata, anche al suo interno, dalle vicende storiche che quei confini, nel giro di pochi anni, hanno continuamente spostato.
In pratica, se i figli di Carlo Zandl sono nati tutti cittadini austroungarici, già i nipoti si sono trovati ad essere cittadini italiani, mentre i pronipoti, cioè la mia generazione, segnata dalle vicende della Seconda guerra mondiale, sono diventati cittadini chi jugoslavi, oggi croati, chi italiani, e chi, in seguito, australiani e tedeschi. E ciascuno con una propria identità (e sentimento) nazionale e una propria lingua d’uso. Il che allontana, per le comuni radici, qualsiasi ipoteca di sangue, cara invece ai nazionalisti di ogni genere che amano assegnare alle popolazioni interne ai confini del proprio Stato di riferimento un’unica appartenenza etnica, tanto da eliminare dal territorio lingue e culture diverse che avrebbero pari diritto di esistere e convivere.
E’ accaduto negli anni del fascismo per la componente slava della popolazione; è accaduto con la cancellazione massiccia della componente italiana mantenuta, in piccola parte, salva al prezzo di una fortissima ideologizzazione negli anni jugoslavi; accade ancora oggi in seguito a un perseguito nazionalismo croato che espropria la lingua e la cultura italiana nei luoghi dove questa presenza era maggioritaria (recentemente ho visto le indicazioni turistiche a Lussinpiccolo e ad Abbazia scritte in croato, inglese, tedesco, francese e sloveno, assente l’italiano che avrebbe dovuto essere per lo meno la seconda lingua). Ma accade anche il contrario, in quanti, disturbati dalla presenza politica di Slovenia e Croazia sui territori istriani e fiumani, usa per questi l’iperbole di “italianissimi”, mentre la loro unicità e bellezza – e questo vale per tutti - era rappresentata dalla ricchezza linguistica e culturale delle sue genti.
Questa lunga premessa apre alla lettura di un libro di grande valore: “Il lago – Ritorno nei Balcani in pace e in guerra” della scrittrice bulgara Kapka Kassabova, edito da Crocetti, nella traduzione dall’inglese (l’autrice vive da anni nelle Highlands scozzesi) di Anna Lovisolo. Il libro è incentrato sui laghi di Ocrida e Prespa, anch’essi posti in terre di frontiera che, negli anni, sono state bulgare, jugoslave, macedoni, greche, albanesi, e in parte lo sono ancora, con tutte le conseguenze del caso.
Certo, molto è da imputare ai totalitarismi del ventesimo secolo – alle dittature comuniste jugoslava, albanese, bulgara e fascista greca – ma anche prima e dopo questi regimi, la situazione non era, e non è ancora, molto diversa. Nessuno stato qui, nei suoi ultimi confini, ha mai concepito la riduzione di questi a linee di esclusiva competenza amministrativa, nulla più, lasciando alle genti che vi abitano la piena libertà di esprimersi secondo l’identità linguistica e culturale a cui si sentono di appartenere, senza imposizioni statali di sorta.
Il libro della Kassabova, con radici famigliari in riva ai laghi di Ocrida e di Prespa, ma con legami famigliari macedoni, racconta questa sorta di travasi che, pur perdendosi nel tempo, permangono oggi come un trauma ancora presente. E come per lei, così per altra gente, della quale l’autrice racconta le tante, straordinarie storie, che costituiscono l’humus di tutte le popolazioni che vivono intorno ai due laghi e che, pur partendo da un unico tronco, si riconoscono oggi, per li rami, come albanesi o macedoni o greci o bulgari a seconda del percorso famigliare che ha alle spalle ciascuno di essi.
I motivi possono essere tanti, e affondano nel secolo passato. Sicuramente, prima le guerre balcaniche del 1912-1913 hanno avuto il loro ruolo in questo cambio di identità nazionali e, successivamente, le guerre mondiali e i totalitarismi che hanno caratterizzato gli anni a cavallo delle due guerre fino alla caduta del muro di Berlino e, quindi, le guerre jugoslave. Ma anche le epoche antecedenti, il vecchio Ottocento, non scherzano. Comunque, ieri come oggi, sempre, in un modo o nell’altro, non poca responsabilità del caos balcanico hanno avuto le grandi potenze mondiali dell’epoca.
Partiamo, ad esempio, dal trattato di Santo Stefano del 1878, grazie al quale la Bulgaria divenne uno stato autonomo e quasi l’intero territorio macedone vi venne annesso. Ma la presenza così ampia di uno stato slavo allarmò Francia e Gran Bretagna, che vedevano in esso il rischio di una pericolosa influenza russa. Ecco allora, soltanto tre mesi dopo, un nuovo trattato, quello di Berlino, per cui “la Macedonia veniva rigettata nel violento caos tardo-ottomano, che a sua volta sarebbe sfociato nell’epica Lotta macedone”. Seguì un andirivieni che vide la Bulgaria perdere e guadagnare la Macedonia per ben quattro volte in sessant’anni. Ma non finisce qui.
La Macedonia, dopo la jugoslavizzazione (1944-1991), quella che ha conosciuto da bambina la stessa Kassabova, prima di emigrare con la famiglia in Nuova Zelanda, cadde nella repressione politica e culturale del pensiero unico di “Tito, tata, mama”, (Tito, (per primo) papà e mamma). Scrive la Kassabova: “Nella Macedonia meridionale le autorità chiusero tutte le scuole superiori eccetto cinque, perché l’istruzione produceva indipendenza di pensiero. In tal modo due generazioni di macedoni sono state private dell’istruzione superiore. La polizia segreta era ovunque e la regione del lago, una volta ricca, si trasformò nell’angolo più povero del paese. L’esperienza jugoslava si concluse nella violenza, esattamente com’era iniziata”.
Ma, con la propria indipendenza da Belgrado, la Macedonia si è trovata, da una parte, in mezzo alla diatriba con la Grecia, per la esagerata identificazione di quest’ultima con l’impero di Alessandro il Grande, che ne contestava il nome, dall’altra con la Bulgaria che vorrebbe tornare a metterci in qualche modo le mani sopra (e pone ostacoli all’ingresso della Macedonia nella UE).
Tornando alla diatriba con la Grecia, nel suo ampio racconto, la Kassabova narra anche, attraverso alcune testimonianze, la repressione greca nazionalista, prima quella di Metaxas, poi degli “anni di pietra”, come viene chiamato il lungo periodo seguito alla guerra civile greca, quando era proibito alla popolazione macedone parlare la propria lingua e si poteva usare solo il greco. Un condizionamento che sopravvive tuttora, per cui capita che tra loro i macedoni di frontiera in territorio greco parlino il macedone, ma ecco che, se si approssima un poliziotto greco, si mettono a parlare in greco.
Racconta la Kassabova: “Dopo due soli giorni la sponda greca del Prespa aveva installato in lui (Nick, un australiano di origine macedone n.d.r) paranoia e in me risentimento. Guardai con sfiducia i poliziotti e la loro ignorante spavalderia, e stavo quasi per dire, con una voce che non era la mia: ‘Voi non vi rendete minimamente conto di quanto abbia sofferto questa gente’. E se poi quei poliziotti mi avessero sbattuto in faccia la loro, di sofferenza? Il Prespa mi aveva insegnato che probabilmente i bisnonni di quegli agenti erano dei profughi dell’Asia Minore, o degli umili pastori originari dell’Epiro venuti a stabilirsi qui durante l’ellenizzazione dei territori intorno al lago. Avevano forse avuto una scelta? Anche loro erano dei sopravvissuti della storia”.
Naturalmente, sono tante altre le esperienze che la Kassabova ha raccolto e narrato in questo libro. L’ha fatto con maestria, anche nella descrizione dei paesaggi, e con l’intensità di chi ha vissuto e continua a vivere sulla propria pelle la sofferenza di una identità offesa (e con questo sentimento l’ho vissuto anch’io da lettore). Penso a tante persone, come ad esempio quell' albanese di Ocrida, il cui padre, agente della polizia politica di Hoxha, riuscì, prima di essere arrestato e condannato a 20 anni di lavori forzati perché aveva criticato alcune frasi del dittatore, a farlo fuggire, bambino, con la madre dalla riva albanese del lago di Ocrida a quella macedone. Senza poi mai, crescendo, avere la possibilità di conoscerlo, il proprio padre, perché morto in un campo di internamento albanese.
E’ finito tutto ciò? No. Pensiamo a quanto sta accadendo con la Bosnia, ma potremmo arrivare addirittura all’attualità dell’aggressione russa all’Ucraina. “La battaglia per poter conservare il proprio nome, la lingua madre e le lettere dell’alfabeto, il passato, il presente, i figli, la tomba dei propri morti, in fin dei conti per esistere, questa battaglia che si trasmetteva irrisolta da una generazione all’altra e si moltiplicava in uno schizoide braccio di ferro tra cugini e fratelli, era paragonabile a una malattia sistemica. L’intero sistema si ammala”.
Ma l’uomo non l’ha ancora capito.