Nasce per un magico errore il "sinjo sirene" (formaggio erborinato) di Cherni Vit, villaggio montano della Bulgaria centrale. Un simbolo di riscoperta di antiche tradizioni "Slow Food", che grazie a iniziative come "Terra Madre Balcani" aumentano consapevolezza e voglia di un approccio diverso al cibo
“E' un paradosso, lo so. Ma il problema è tutto qui. Abbiamo prodotti tradizionali da salvaguardare, di grande qualità, ma le comunità che li producono sono disorientate, disgregate. Per questo la riscoperta del 'sinjo sirene' è importante, anche simbolicamente: non ci sono radici più forti di quelle che passano per la cucina”.
Villaggio di Cherni Vit, Bulgaria centrale. Tzvetan Dimitrov mi accoglie in un patio nel cortile erboso del municipio. All'orizzonte fanno capolino le cime scure dei Balcani, catena montuosa che attraversa l'intero paese da ovest ad est, per poi digradare lentamente nelle acque del Mar Nero.
Dimitrov è una vera autorità nel piccolo villaggio, che si snoda lungo le acque cristalline del fiume Cherni Vit, da cui ha preso il nome. Sindaco, biologo, punto di riferimento per tutta la comunità. E da alcuni anni “riscopritore” di un'antica tradizione culinaria creduta estinta: quella, appunto, del “sinjo sirene”(letteralmente “formaggio blu”) dei Balcani centrali.
Questo formaggio (probabilmente l'unico erborinato di tutta la penisola balcanica, di consistenza simile a quella della feta greca) è nato nei secoli da un “errore” nel processo di conservazione. Il formaggio, cagliato in piccole forme tondeggianti da latte ovino e caprino, veniva risposto in salamoia dai pastori della zona in piccoli contenitori di legno cilindrici.
Talvolta, però, il legno assorbe la salamoia, o la lascia filtrare tra le assi. Il formaggio, esposto così direttamente all'aria, viene attaccato da funghi del ceppo Rocheford, che provocano un naturale e non controllato processo di erborinizzazione. Per questo ogni forma può presentare diverse combinazioni di funghi, ed essere di colore diverso (verde, bianco, nero) e gusto differente.
“Tutti quelli che hanno più di 40-50 anni ricordano bene il gusto inconfondibile e la tradizione del 'sinjo sirene', portata avanti dai nostri padri e nonni”, racconta Dimitrov. “Eppure qualche anno fa il 'sinjo sirene' sembrava un prodotto definitivamente scomparso, sparito nei meandri del tempo”.
Due le cause principali. Da una parte la collettivizzazione della proprietà contadina, imposta dal regime comunista a partire dagli anni '50, un processo doloroso che trasforma contadini e pastori in 'operai agricoli', rompendo il legame tra la popolazione e la terra.
Dall'altra la modernizzazione, che comporta il progressivo abbandono delle montagne e rende possibile l'introduzione dei contenitori di plastica che, leggeri, pratici e facilmente lavabili sostituiscono in fretta quelli di legno, rendendo però impossibile il magico “errore” che dava vita al “sinjo sirene”.
In villaggi come Cherni Vit, poi, il crollo del Muro e le speranze che suscita questo evento epocale si trasformano presto in occasioni mancate. Il regime, nella sua rovinosa caduta, si trascina dietro anche lo stato. L'economia collassa, i giovani scappano in città o all'estero. Il villaggio passa rapidamente da 1500 a 900 abitanti, soprattutto anziani.
“Oggi viviamo una situazione difficile”, ammette il sindaco Dimitrov, “ma è proprio da qui che dobbiamo ripartire. E una possibile occasione potrebbe venire proprio dal nostro passato negato, da quel piccolo tesoro di gusto e tradizione del nostro 'sinjo sirene'”.
Un'occasione che si concretizza nel giugno 2007, quando a Cherni Vit arriva una spedizione di Slow Food, alla ricerca di prodotti tradizionali da valorizzare. Dimitrov seleziona una decina di prodotti da sottoporre agli ospiti. Tra questi, quasi miracolosamente c'era anche il “sinjo sirene”.
“L'ho ritrovato nella malga di due anziani, a quasi mille metri di altezza. Un posto in cui si arriva solo per sentieri, senza acqua corrente né elettricità. I due anziani ancora usavano recipienti di legno, più che altro per una questione affettiva. Quando l'ho visto l'ho riconosciuto subito, dall'odore penetrante. Era il formaggio perduto dei miei ricordi di bambino”.
Presentato ai membri della spedizione Slow Food, il “sinjo sirene” è il prodotto che più di ogni altro attira l'attenzione. Da allora Dimitrov, di professione biologo, si entusiasma e inizia a portare avanti esperimenti per comprendere meglio le condizioni in cui il formaggio diventa erborinato, interrogando la “memoria storica” del paese e coinvolgendo cinque famiglie di Cherni Vit che gli forniscono regolarmente il latte di pecora e di capra.
Per ottenere un risultato soddisfacente, sono stati necessari più di due anni. Oggi, però, il “sinjo sirene” è di nuovo una realtà, da gustare soprattutto con il miele tipico di questa regione dei Balcani centrali, l'aromatico e brunito “mahov med” prodotto dalle api attraverso la “mungitura” degli acari.
Una realtà che, potenzialmente, potrebbe contribuire a valorizzare un “pacchetto” turistico che include le attrazioni naturalistiche della zona, il vicino monastero di Glozhene, e il festival folkloristico che ogni fine agosto richiama a Cherni Vit moltissimi visitatori. Ma anche quelle culinarie, basate sulla carne delle due varietà di pecore locali, la “tetevenska” e la “karakachanska”, ma anche sulla fiorente raccolta di funghi e frutti di bosco, per cui la zona è rinomata.
“Pur credendo in quello faccio, sono sempre stato attento a non suscitare troppe aspettative”, ci tiene comunque a precisare il sindaco. “Perché aspettative troppo alte portano facilmente a profonde delusioni”.
Il problema principale è far sì che i prodotti tradizionali come il “sinjo sirene” possano arrivare al mercato, creando un circolo virtuoso che renda la produzione sostenibile e importante, anche economicamente, nella vita della comunità. In Bulgaria, così come in buona parte dei Balcani, questo è reso ancora difficile da quadri legislativi antiquati, ancora incapaci di salvaguardare e valorizzare le produzioni tradizionali.
Ma la questione è anche culturale. Nei Balcani, decenni di ideologia improntata alla centralità della produzione industriale, insieme ad un atavico complesso di inferiorità delle campagne nei confronti della città, hanno spesso reso le comunità contadine incapaci di avvertire il valore profondo delle proprie tradizioni, anche quelle che passano per la tavola.
In questo contesto, un'occasione importante per fare il punto della situazione e scambiare conoscenze ed esperienze nell'area è stata la prima edizione di Terra Madre Balcani, organizzata lo scorso luglio proprio in Bulgaria, nella capitale Sofia da parte dall'Associazione dei Convivium Slow Food in Bulgaria, in collaborazione con Slow Food Internazionale e con istituzioni locali.
Un incontro nato dal basso, dalla volontà dei partner sud-est europei di Terra Madre di incontrarsi, che ha riunito ben 160 delegati provenienti da 10 paesi (Albania, Bosnia-Erzegovina, Bulgaria, Croazia, Grecia, Kosovo, Macedonia, Romania, Serbia e Turchia) e ha creato un vero e proprio palcoscenico attraverso cui attirare l'attenzione, e di dialogare con le istituzioni e la società nel suo complesso.
In uno stand innalzato proprio sotto la cupola dorata della cattedrale “Sveti Aleksandar Nevski”, nel centro della capitale bulgara, i produttori hanno potuto presentare ai consumatori i propri prodotti, come lo “slatko” di prugne “pozegaca” della Bosnia-Erzegovina, il prosciutto della regione di Elèna, in Bulgaria, o il formaggio a pasta morbida di Prizren, nel Kosovo sud-occidentale. Nella vicina università, nel frattempo, si tenevano incontri tematici e workshop, momenti di discussione su eco-gastronomia e produzione sostenibile, con un occhio al turismo responsabile.
“E' stato un incontro importante, soprattutto per sensibilizzare le istituzioni, che faticano a intervenire in modo mirato”, sostiene Desislava Dimitrova, coordinatrice dell'evento, che conferma un dialogo difficile e graduale con la politica sul tema.
Qualcosa, però, si sta muovendo, e l'interesse dimostrato dal pubblico nei confronti di Terra Madre Balcani dimostra il crescere di una sensibilità nuova, di una voglia di riscoprire se stessi anche e soprattutto attraverso a tavola. Il destino del “sinjo sirene” e di buona parte della ricchezza culturale e culinaria dei Balcani, a quanto pare, dipende da quanto questa riuscirà ad affermarsi nei prossimi anni.