Alcuni membri della comunità Juhuro (Raul v Odessie, Public domain, via Wikimedia Commons)

Alcuni membri della comunità Juhuro (Raul v Odessie, Public domain, via Wikimedia Commons)

Un romanzo che racconta delle tradizioni in seno alla famiglia degli ebrei delle montagne o juhuro, comunità secolare che vive sul Caucaso orientale. Il titolo che la scrittrice Stella Prudont ha dato a questo romanzo è "Dedejme", che in lingua giudeo-tata significa "mamma". Una recensione

11/11/2020 -  Diego Zandel

“Dedejme” in lingua giudeo-tato, parlata dai cosiddetti ebrei della montagna, o juhuro, una comunità secolare che vive sul Caucaso orientale, vuol dire “mamma”. E “Dedejme” è il titolo del romanzo che ha scritto Stella Prudont, una giovane scrittrice, con studi in Germania, ma nata a Stavropol, una delle città in cui vivono gli juhuro, ambientando una emblematica storia tra questa comunità. Emblematica, perché rappresentativa dei costumi e tradizioni che sopravvivono in maggioranza tra il Daghestan e l’Azerbaijan ma anche in Cabardino-Balcaria, Cecenia e Stavropol, appunto, Karačaj-Circassia e Krasnodar. Ora il libro è giunto in Italia e pubblicato da una casa editrice, la Francesco Brioschi Editore, che si è assunta il grande merito di dedicare una collana “Gli Altri” alle letterature cosiddette periferiche e che già vanta una significativa produzione di libri di autori iraniani, arabi, turchi, africani e russi (la letteratura russa contemporanea, pur essendo tutt’altro che periferica, non vanta, in Italia almeno, l’attenzione che godono le letterature angloamericane, tedesche, francesi e di lingua spagnola).

Sicuramente un libro come “Dedejme”, tradotto in italiano da Elisabetta Spediacci, premiata traduttrice dall’inglese e dal russo, rappresenta una chicca per l’argomento che tratta, il ritratto di una comunità della quale si sa ben poco, e che un approfondito saggio in appendice al volume di Valerij Dymšic, del Centro di studi ebraici dell’Università europea di Pietroburgo, ben completa dandoci un quadro storico che racconta i diversi e tutt’altro che facili passaggi di questa comunità, minata da tentativi di dispersione – per fortuna l’annientamento fisico le è stato risparmiato sia da parte dei nazisti (che comunque il 20 settembre 1942 riuscirono a fucilare ben 470 ebrei delle montagne) fermati dalle cime del Caucaso, sia da parte dei sovietici che, pur avendo avuto l’Armata Rossa il grande merito di aver respinto i tedeschi, successivamente attuò una politica antisemita che spinse molti ebrei all’emigrazione oppure “a cercare di sostituire la nazionalità indicata sulla carta d’identità”, assimilandoli ai “tati”, al punto di far via via scomparire l’espressione “ebrei della montagna” dalle varie edizioni che si succedevano negli anni della Grande Enciclopedia Sovietica.

Invece, come si dice, vivono e lottano insieme a noi. Di più. Come scrive Valerij Dymišic: “Gli ebrei delle montagne hanno svariati tratti caratteristici, ma ce n’è uno in particolare che li rende estremamente interessanti agli occhi di un ricercatore: sono una delle poche comunità ebraiche a vivere ‘a casa propria’”. Ma anche coloro che se ne sono andati, a Mosca o in Israele, fanno ritorno a casa per essere presenti alle varie cerimonie o, semplicemente, per trascorrervi le vacanze.

Il romanzo di Stella Prudont s’inserisce, ai tempi di oggi, in questo rispetto delle tradizioni. C’è naturalmente una protagonista, ed è Channa, questa Dedejme, questa mamma (e ormai nonna), che si appresta a preparare i festeggiamenti per i settant’anni del marito Natan, patriarca dei Saviev. Hanno molti figli, ma l’attenzione della scrittrice si concentra su due figlie in particolare, una naturale, Erke, e una adottiva, Šeker, in realtà sua nipote, verso la quale Channa ha un attaccamento, forse più di tipo possessivo ma, comunque, non esente d’affetto, tanto da soffrire al pensiero che la ragazza, ora che alla festa di Natan verranno anche Zina e Dovid, i suoi genitori naturali, desidera tornare in seno a loro.

Channa la considera ingrata dopo tutto quello che ha fatto per lei, tra cui ora averle trovato un buon partito da sposare, e spinge Erke a convincere la ragazza a non andarsene, facendole fare la parte del, diciamo, “poliziotto cattivo”. Erke ha motivo di avercela con Šeker, perché, pur essendo figlia naturale di Channa, pensa di avere avuto meno di lei che ha potuto anche godere di studi, ad esempio quello del pianoforte, che a lei è stato negato e altri dettagli di vita privata. Come se non bastasse, Erke è uscita da un matrimonio devastante, di pura facciata tanto da non essere neppure stata sfiorata dal marito innamorato di un’altra donna. Solo quando, dopo un anno il matrimonio e il mancato arrivo di un figlio si verrà a sapere il perché, l’uomo, spinto dalla propria madre, le concederà un’unica notte d’amore grazie alla quale resterà incinta. Ma tutto finirà lì, in un rapporto di estrema sottomissione della donna, che, secondo la tradizione, una volta sposata finisce col dipendere interamente dal volere della suocera (la stessa, in questo caso, che avrebbe spinto il figlio a mettere incinta la nuora). La storia matrimoniale poi di Erke avrà altri risvolti che, comunque, alla fine la faranno tornare nella casa paterna, sotto le ali di Channa. La quale poi, per lei, si sarebbe prodigata a trovare un altro marito.

Ma tutti questi sono aspetti che il lettore conoscerà e apprezzerà leggendo la storia che il romanzo racconta sul filo appunto delle tradizioni in seno alla famiglia degli ebrei delle montagne, con le loro gerarchie, consuetudini e quant’altro tra cui la continuità nel seguire la strada dei matrimoni combinati all’interno della loro stessa comunità, senza o con pochissime e casuali eccezioni. Matrimoni in cui il potere di combinarli è dato tutto alle donne, mentre gli uomini mantengono un potere assoluto all’ombra della famiglia di lui, con il comando del clan in mano al padre e, dopo la sua morte, al figlio maggiore. Una tradizione che tuttora resiste anche nei luoghi di emigrazione e mantenuta, nonostante i tentativi distruttivi, anche in epoca sovietica.

La storia di “Dedejme” è ambientata durante il periodo di El’cin e quindi abbastanza, seppur relativamente, recente, e rivela, nella sua trama molto interna alla famiglia juhuri la forza che le tradizioni, negli anni, hanno in questa comunità, tanto da suscitare l’interesse dei ricercatori etnografici, interesse che riguarda ogni aspetto della loro vita intima e sociale, compresa la loro arte e architettura.