Un racconto da Groznyj, capitale della Cecenia, dove le facciate luminose del centro nascondono una pace fragile ed una società ferita. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Il sole cala impercettibilmente dietro alle dolci colline che chiudono Groznyj in una conca dorata: gli ultimi raggi di luce, radenti, colorano di rosso le rocce dei rilievi che annunciano la catena del Caucaso. La città, vista dall’alto, è una macchia verde, grigia e gialla: le chiome rigogliose degli alberi, allineati a intervalli regolari lungo i marciapiedi, non riescono a nascondere del tutto l’asfalto delle larghe strade ortogonali fra loro; le facciate dei palazzi nuovi sorridono all’ultimo sole, prima di amalgamarsi con la luce scialba dei lampioni.
Il centro è una vera e propria City, con grattacieli altissimi, su cui led luminosi disegnano fiori, cuori e inneggiano alla magnificenza del popolo ceceno. La moschea “Cuore della Cecenia”, in marmo pregiato, è l’ombelico di Groznyj, il punto in cui convergono tutte le più importanti arterie urbane e da cui comincia il Boulevard Putin, la strada principale della città.
D’estate, non appena l’afa dà tregua, la polizia chiude al traffico il Boulevard e la via, trafficatissima di giorno, diventa un percorso pedonale in cui la gente passeggia avanti e indietro, centellinando gelati. I bambini corrono su e giù guardati a vista dai genitori, le ragazze con il capo coperto da veli colorati spingono carrozzine con neonati dalle gambe bianche e scoperte fino al pannolino, grande a tal punto da arrivare allo sterno; gli artisti di strada mettono in mostra la propria abilità e mangiano il fuoco, giocano con birilli, cerchi e divertono i capannelli di pubblico assiepati intorno a loro come le vespe sui rimasugli dei cocomeri nei bidoni della spazzatura ai lati del Boulevard, vicino ai marciapiedi. Donne anziane vendono frutta fresca, il kvas – una bevanda rinfrescante non alcolica a base di malto fermentato – centrini fatti all’uncinetto, souvenir e bigiotteria.
D’inverno, il bouvevard è spesso ricoperto di neve e la gente si affretta verso punti indeterminati della città – un caffè, un ristorante, una casa – impossibile definire le numerose traiettorie che le orme lasciate sulla neve descrivono in ogni direzione.
“Non avrei mai pensato che sarei riuscito a vedere di nuovo Groznyj in perfetto stato, con tutte le sue case e le sue strade”, dice Mohamed, un tassista che mentre aspetta i clienti mangia un panino appoggiato con la schiena alla propria automobile, in un vicolo perpendicolare al Boulevard. Vent’anni fa, Groznyj fu completamente rasa al suolo. La guerra è durata anni e nella capitale cecena non c’era più neppure un edificio intero ma solo un ammasso di rovine, polvere, schegge, calcinacci, fili di ferro che fuoriuscivano dalle fondamenta di cemento armato dei palazzi socialisti che ormai non esistevano più. La Prima guerra cecena è cominciata nel 1994. Già nel 1991, il Presidente della Repubblica Federale Cecena Djokhar Dudaiev aveva unilateralmente dichiarato l’indipendenza della piccola repubblica caucasica; per questo, falliti i tentativi di trovare una soluzione diplomatica al conflitto, il Presidente russo Boris Eltsin aveva dato l'ordine di cominciare le operazioni militari per riportare il territorio perduto sotto il controllo di Mosca. Nel 1996 i ribelli ceceni, sconfitti, hanno accettato le condizioni di pace imposte dal governo centrale. Groznyj era già stata distrutta nel corso di una notte nel novembre del 1994 in quella che viene ricordata come la “Battaglia di Groznyj”.
L’instabilità economica e istituzionale in cui all’epoca versava la Russia ha permesso però alle milizie paramilitari cecene di riorganizzarsi, grazie anche all’aiuto offerto da altri stati, a cominciare dall’Arabia Saudita, che mandò nel Caucaso soldi, armi e combattenti. La ribellione ha infiammato anche il Daghestan e l’Inguscezia; in Cecenia è però escalata in una vera e propria guerra di secessione, la Seconda guerra cecena, cominciata nel 1999.
Nel 2009, la Russia di Vladimir Putin porta alla fine dell'"Operazione anti-terrorismo". Formalmente, con questo atto ha termine la seconda guerra cecena. La Cecenia ora è governata da Ramzan Kadyrov fedele a Mosca. Dalla fine delle ostilità a Groznyj, come in tutto il resto della regione, regna una pace silenziosa, totale, costante, terrificante.
Per le strade di Groznyj non ci sono resti visibili, segni a ricordare che qui si è combattuto senza pietà; nonostante ciò, si ha comunque l’impressione che la pace sia fragile, volatile come la neve di novembre, che in Cecenia si scioglie spesso nel giro di un mattino. Del conflitto non si parla, ma è presente nell’inconscio di ogni cittadino ceceno come un trauma solo parzialmente rimosso. 10 anni sono sufficienti per far sparire le macerie e ricostruire una città ma non per elaborare un lutto di dimensioni epocali.
“Spero che non ci sia più la guerra”, dice Valentina con un viso serio e preoccupato allo stesso tempo. Passeggia insieme al nipote di 5 anni che tiene stretta fra le mani l’asta di plastica di una piccola bandiera verde, bianca e rossa, i colori della Cecenia, che alcuni ragazzi vendono davanti alla moschea “Cuore della Cecenia” per racimolare qualche soldo da devolvere in beneficenza all’associazione dei sordo-muti.
Valentina ha 46 anni, è estremamente magra e ha il viso rugoso, come se fosse stata esposta ininterrottamente ai raggi solari dal giorno della sua nascita. Ha sempre vissuto in città, a Groznyj. Cammina lentamente nel cortile porticato della moschea, lastricato in marmo pregiato. “Cuore della Cecenia”, per fasto e stile architettonico, ricorda gli edifici di Abu-Dhabi e Dubai. La storia personale di Valentina, però, testimonia che la ricchezza di Groznyj è solo di facciata: i palazzi nuovi, le strade imbellettate di negozi e ristoranti, la gente a passeggio sono solo rose a nascondere l’abisso.
Valentina si è sposata quando aveva appena compiuto i diciotto anni. Dopo nove mesi è nata la prima e unica figlia; i rapporti con il marito sono diventati burrascosi dopo neppure un anno di matrimonio, a tal punto da costringere la donna a chiedere il divorzio. Durante la Prima guerra cecena le hanno ucciso il padre; Valentina non sa chi l’abbia ammazzato, se siano stati i ribelli o l’esercito russo, non ha mai neanche voluto sapere da che parte stesse il genitore. Si è chiusa in se stessa ed è sopravvissuta ai duri anni Novanta come ha potuto; di quel periodo si rifiuta categoricamente di parlare. Adesso vive alla fine del Boulevard Putin, in un palazzo nuovo (non ci sono più edifici vecchi a Groznyj), a pochi passi dalla Galleria di Stato “Kadyrov”, un museo che esalta le gesta del padre dell’attuale Presidente. “Mia figlia ha ripetuto gli stessi miei errori”, dice sconsolata Valentina. Si è sposata giovanissima, ha partorito un bambino e subito dopo ha divorziato, dato che l’uomo beveva ed era violento.
Valentina lavora in un negozio come commessa e guadagna 150 euro al mese. Oggi è domenica, ha deciso di andare a passeggio con il nipote, cosa che accade raramente. Di solito rimangono a casa a guardare la televisione. Hanno mangiato in un ristorante lungo il Boulevard Putin. A Groznyj, tutti i locali sono chic ed estremamente cari. Ha ordinato un hamburger con le patatine fritte per il ragazzino, nulla per sé. “800 rubli (circa 10 euro) ho lasciato in quel ristorante, e il bambino alla fine non ha neanche voluto mangiare”. È ancora troppo piccolo per capire che valore abbiano i soldi: tiene con fermezza l’asticella di plastica della bandiera in mano, quasi abbia paura di perderla o che qualcuno gliela strappi con forza per portarla via. Si guarda intorno con circospezione ma gli occhi sono spenti, come se in realtà non vedesse il mondo esterno. Ha una maglietta bianca che porta la scritta “Firenze”; sullo sfondo si vede tratteggiata la Basilica di Santa Maria del Fiore.
Valentina non ha mai lasciato Groznyj. Non ha visto nient’altro che la propria città natale. Un tempo sognava di partire, di andare lontano. Adesso ha smesso, anche se ha ancora il desiderio di vedere la Spagna: Barcellona, Valencia, Malaga erano le città in cui sarebbe voluta scappare da giovane. Ha visto Mosca in televisione e ha l’impressione che il Cremlino sia immenso, infinito. Prende per mano il nipote e si avvia verso la grande fontana, quella del parco a metà strada fra la Moschea e i grattacieli della City. L’acqua è acqua, a Groznyj come a Barcellona.
Nel telegiornale della sera si parla quasi esclusivamente del Presidente Kadyrov. Se Kadyrov va a spasso per la città, la tv di Stato cecena mostra l’intera passeggiata, dall’uscita del Presidente dalla sua dimora – un edificio che ricorda la Casa Bianca di Washington e che si trova vicino alla City – fino al ritorno. È lo stesso Kadyrov a occuparsi delle riprese: con il suo telefonino, riprende il mondo intorno a sé (soprattutto i bambini che gli corrono incontro e lo abbracciano) e lo trasmette in diretta via Instagram. Kadyrov ha la barba lunga, come quasi tutti gli uomini ceceni, e veste sempre un’uniforme militare. Il leader ceceno utilizza internet per promuovere il culto della personalità di stampo sovietico. Non disprezza però neanche i metodi più antichi: su tutti gli edifici pubblici, infatti, troneggia la sua immagine. A sinistra; a destra invece c’è quella di Putin, a sancire il patto fra i due: simul stabunt, simul cadent. Il presidente russo e quello ceceno sono in simbiosi; il primo non avrebbe potuto vincere la guerra senza l’aiuto del secondo; Kadyrov, dal canto suo, non potrebbe governare in maniera dispotica senza l’avvallo di Putin e infatti ha intitolato all’alleato e amico l’arteria principale della città.
Già a maggio, di sera, il Boulevard Putin si riempie; tre ragazze passeggiano, fra risate e schiamazzi. Una ha una ghirlanda di fiori a mo’ di corona, un’altra tiene in mano un gatto siamese. Sembrano felici, senza pensieri; si dirigono a passi lenti verso la fine del Boulevard, lì dove abita Valentina e dove una decina di poliziotti, armati di mitra, pistole e manganelli, garantisce pace e sicurezza al popolo ceceno.