Dopo la denuncia di Novaja Gazeta su torture e uccisioni di omosessuali in Cecenia continua il dibattito. Una panoramica

09/05/2017 -  Emanuele Cassano

Continua a fare discutere quanto denunciato dal periodico russo Novaja Gazeta, che in un articolo pubblicato a inizio aprile aveva riportato diversi casi di torture e uccisioni ai danni di omosessuali in Cecenia. Secondo il servizio, a partire dallo scorso febbraio le autorità della repubblica caucasica avrebbero messo in atto un’ampia operazione mirata a colpire la popolazione omosessuale del paese, allestendo per l’occasione veri e propri campi di prigionia. Nel giro di un mese sarebbero stati incarcerati circa un centinaio di uomini, mentre almeno tre sarebbero stati uccisi.

La notizia, che si basa su alcune testimonianze dirette fornite da presunte vittime delle violenze riuscite a lasciare la Cecenia, non è stata confermata dal Cremlino, mentre continua a essere smentita con veemenza dalle autorità locali. Nel frattempo, diversi movimenti per la difesa dei diritti LGBT si sono attivati per cercare di soccorrere gli omosessuali rimasti in Cecenia, assistendoli attraverso un servizio di supporto online e invitandoli a lasciare il paese. Sebbene secondo Svetlana Zacharova, attivista del gruppo Russian LGBT Network, non si siano mai registrate in passato ondate di repressione così intense come quella recente, le violenze ai danni delle minoranze sessuali non rappresentano una novità per la società cecena, rimasta fortemente legata alle proprie tradizioni e a un codice d’onore che considera l’omosessualità un peccato mortale.

Delitti d’onore

Interrogato in seguito alla pubblicazione dell’articolo di Novaja Gazeta, Ali Karimov, portavoce del presidente ceceno Ramzan Kadyrov, ha dichiarato che in Cecenia non ci sono omosessuali, smentendo pertanto le persecuzioni e gli omicidi. Al di là delle affermazioni di Karimov, nessuno può determinare con esattezza i numeri della comunità LGBT in Cecenia, poiché, come ricorda Zacharova, nella repubblica caucasica non vi sono né omosessuali dichiarati né attivisti od organizzazioni in loro sostegno. Questo è dovuto al fatto che l’omosessualità in Cecenia è percepita come una vera e propria piaga sociale, e pertanto è combattuta a ogni livello, a partire da quello statale, attraverso campagne d’odio e politiche repressive, fino a quello familiare, forse il più rilevante. Secondo la società cecena infatti, un individuo, dichiarando la propria omosessualità o assumendo comportamenti ritenuti equivoci, offende prima di tutto il nome della propria famiglia, disonorandola e facendole perdere il rispetto della comunità. Spesso sono quindi gli stessi parenti del malcapitato i primi a obbligarlo a nascondere il proprio orientamento sessuale, minacciando altrimenti gravi ritorsioni.

Secondo Zacharova, a volte la vergogna provata da una famiglia può essere tale da indurre i parenti a lavare l’offesa subita con il sangue, come indica la tradizione. Nella repubblica caucasica vige infatti un codice di regole non scritto (‘ādat) che prevede il delitto d’onore come metodo estremo per salvaguardare la reputazione di un individuo o di un gruppo familiare. Questa pratica, sdoganata nel 2009 dallo stesso Kadyrov, è ad oggi accettata da gran parte della popolazione cecena. Emblematica è la storia della 25enne Raina Aliev (nata Adam), transgender di origine cecena residente nel vicino Daghestan, massacrata brutalmente nell’ottobre 2016 su ordine dei suoi stessi parenti. I genitori della vittima non avevano potuto accettare la decisione di Raina di operarsi per cambiare sesso e inscenare un matrimonio con il proprio fidanzato (la Russia non riconosce i matrimoni tra persone dello stesso sesso), e sentendosi in dovere di salvaguardare la propria reputazione hanno invocato la morte del figlio. Pochi giorni prima dell’omicidio, il padre della vittima, rivolgendosi a un’emittente televisiva locale, si era così espresso: “Lasciate che sia ucciso, non voglio più vederlo […] portatelo qui e uccidetelo davanti ai miei occhi”.

Essere uomo nel Caucaso

Torture e omicidi legati a casi di omosessualità non rappresentano quindi una novità nel Caucaso, dove l’omofobia è un sentimento fortemente radicato all’interno della società e dove la diversità sessuale è sinonimo di peccato, disonore e debolezza, termini incompatibili con l’immagine dell’uomo-guerriero fornita dalla tradizione. Ma cosa significa essere uomo nel Caucaso? È quello che ha provato a spiegare Ksenia Isaeva, giornalista di Russia Beyond the Headlines, attraverso un reportage svolto nella repubblica dell’Ossezia del Nord. All’interno delle società caucasiche, fortemente patriarcali e conservatrici, al di là dell’appartenenza etnica o della religione professata, l’uomo ricopre un ruolo di primaria importanza, in quanto spetta a lui dirigere la famiglia e difendere la patria; per questo è necessario che fin da piccolo ogni ragazzo acquisisca i valori necessari a diventare in futuro un valido marito, padre e combattente.

Intorno al mito della virilità è stato creato un vero e proprio culto, come dimostra la grande passione verso l’arte del combattimento, che spinge moltissimi giovani a praticare arti marziali e altri sport di lotta, adatti a forgiare sia il corpo che lo spirito. Allo stesso tempo però, questa ossessione nei confronti della virilità finisce per generare intolleranza verso chi non soddisfa questo stereotipo, dando così vita al seme dell’omofobia e alle discriminazioni sessuali, che in casi estremi possono degenerare fino a dare origine a situazioni simili a quelle descritte dai recenti fatti di cronaca.