In Croazia, la legge che garantisce l'accesso all'aborto risale alla Jugoslavia socialista. Dall'indipendenza nel 1991 gli attacchi a questo diritto si sono moltiplicati e sta diventando sempre più complicato per le donne interrompere la gravidanza
(Originariamente pubblicato da Courrier des Balkans , il 12 maggio 2022)
La gravidanza di Mirela Čavajda era iniziata benissimo. Ma dopo 25 settimane di felicità ed eccitazione, il sogno si è trasformato in un incubo: la futura mamma è venuta a sapere che il suo bambino era affetto da un grave tumore, localizzato nel cervelletto. Era un martedì, proprio alla fine di aprile, durante un esame di routine. Quel giorno i medici le dissero che le possibilità di sopravvivenza alla nascita erano quasi nulle e, anche se fosse stato così, il bambino avrebbe sofferto di malformazioni molto gravi.
Devastata, Mirela Čavajda decide allora di interrompere la gravidanza e si rivolge a tre cliniche di Zagabria, la città in cui vive. Dato lo stato di avanzamento della gravidanza, si tratta di un'emergenza. Ma la trentenne ha ricevuto ogni volta la stessa risposta: gli ostetrici-ginecologi si sono rifiutati di eseguire l'intervento. Tuttavia, la legge croata garantisce il diritto di una donna ad abortire dopo la 12ma settimana, quando vi sono indicazioni mediche che la donna potrebbe "dare alla luce un bambino con gravi disabilità fisiche o mentali".
Le tre commissioni mediche che hanno esaminato il caso di Mirela Čavajda hanno tutte ignorato la previsione di legge, chiedendo ulteriori esami per garantire che l'aborto fosse giustificato. Non hanno mai tenuto conto del fatto che l'operazione, già in ritardo, stava diventando sempre più rischiosa. "La mia cliente non ha ricevuto alcun aiuto, alcun consiglio. I medici le hanno solo detto di tornare a casa e di provare in Slovenia", ha dichiarato la sua avvocata, Vanja Jurić, al sito web Index. La classe medica del paese non sembra quindi essersi mai preoccupata delle sue sofferenze fisiche e morali.
Lo scandalo ha rapidamente assunto proporzioni nazionali in Croazia, rilanciato sui social network da donne e uomini scioccati da una tale mancanza di umanità. È intervenuto pubblicamente anche il presidente Zoran Milanović per denunciare un esempio della "regressione conservatrice" in atto in Croazia. Mercoledì 11 maggio, dopo giorni di polemiche, i medici hanno finalmente autorizzato l'aborto, come annunciato di persona dal ministro della Salute Vili Beroš, anch'egli sotto tiro.
Giovedì 12 maggio si è poi tenuta una manifestazione in piazza Ban Jelačić, nel cuore di Zagabria. In solidarietà con Mirela Čavajda, ma anche con "tutte le donne che hanno subito varie forme di violenza nelle strutture sanitarie e i cui diritti alla salute garantiti dalla Costituzione e dal quadro giuridico della Repubblica di Croazia vengono violati giorno dopo giorno", hanno sottolineato gli organizzatori.
L'intera Croazia è nella morsa della Chiesa
Il trattamento riservato a Mirela Čavajda è sintomatico delle minacce sempre più pesanti al diritto all'aborto in Croazia. E la situazione non è nuova: i primi colpi contro questo diritto fondamentale sono stati sferrati già durante l'indipendenza, nel 1991, da movimenti pro-vita molto vicini alla Chiesa cattolica. Nel periodo in cui infuriava la guerra, si sono svolte manifestazioni per chiedere l'abrogazione della legge del 1978, adottata durante l'epoca jugoslava e recepita così com'era nella nuova Costituzione. Anche una petizione ha raccolto decine di migliaia di firme. Nonostante questa fortissima pressione, il governo conservatore ha preferito non legiferare, una posizione che da allora non è cambiata di una virgola.
Dopo essere passata in secondo piano negli anni 2000, la questione dell'aborto è tornata a essere una priorità per i gruppi fondamentalisti nell'ultimo decennio. Ogni anno, ad esempio, il periodo quaresimale si trasforma in una massiccia campagna quotidiana. "Ogni giorno si tengono manifestazioni e preghiere davanti agli ospedali del paese che praticano aborti", afferma Ivana Perić del collettivo femminista Faktiv. Chiamata 40 dana za život (40 giorni per la vita), questa iniziativa è sostenuta da due influenti associazioni, U Ime Obitelji (In nome della famiglia) e Vigilare. Si tratta di un adattamento locale dei 40 giorni per la vita lanciati nel 2004 in Texas "in risposta alla violenza dell'aborto".
In Croazia, l'86% della popolazione si identifica come cattolica e la Chiesa, potente e conservatrice, svolge un ruolo sociale e politico importante. "L'intera Croazia è nella sua morsa", afferma Dorotea Šušak, direttrice del Centro per gli studi femminili, lamentando "la visione molto patriarcale della società che questa istituzione promuove". "A scuola, per esempio, ai bambini viene impartita l'educazione religiosa, ma non l'educazione sessuale", continua. E poi aggiunge: "I croati sono più cattolici del Papa.
"Nell'era jugoslava eravamo più liberi", lamenta la ginecologa Jasenka Grujić, sottolineando la crescente influenza del clero cattolico ultraconservatore. Grujić è ora una delle poche nella sua professione che osa esprimersi pubblicamente a favore dell'interruzione volontaria di gravidanza. Il motivo? “Molti dei miei colleghi considerano l'aborto un omicidio”.
In Croazia è diventato quasi impossibile parlare pubblicamente di aborto
Gli studi commissionati dalla Gender Equality Advocate lo confermano: nel 2019, il 59% dei ginecologi croati ha dichiarato di non voler praticare aborti, citando la "clausola di coscienza". E la tendenza è in crescita: nel 2014 erano il 4% in meno. In confronto, nella vicina Slovenia, anch'essa di tradizione cattolica, appena il 3% dei ginecologi solleva questa clausola. Per non parlare dei siti web pro-vita che invadono Internet e delle campagne anti-aborto che si possono vedere sui muri delle cliniche e degli ospedali.
In queste condizioni, non c'è da stupirsi che la Croazia abbia il tasso di aborti praticati più basso dell'Unione europea, dopo la Polonia. Nel 2018, ci sono stati appena 67 aborti ogni mille nascite, tre volte meno che in Slovenia e quattro volte meno che in Serbia, due stati limitrofi anch'essi emersi dall'implosione della Jugoslavia. "È diventato quasi impossibile parlare pubblicamente di aborto in Croazia", afferma Ivana Perić. "Anche all'interno delle istituzioni mediche, le donne che intendono abortire vengono guardate dall'alto in basso, ridicolizzate, a volte persino cacciate e fatte sentire come se stessero commettendo un crimine".
Lo stigma è tale che nelle aree rurali le donne preferiscono non recarsi all'ospedale più vicino, ma percorrere decine di chilometri per raggiungere una struttura medica dove nessuno le conosce. Negli ultimi anni, sempre più donne croate si recano nei paesi vicini per abortire. "Fondamentalmente, le donne che vivono a Zagabria vanno in Slovenia, quelle della costa dalmata e del centro del paese in Bosnia Erzegovina e quelle dell'est del paese in Serbia", dice Jasenka Grujić, che invia le sue pazienti alla clinica slovena di Brežice, appena oltre il confine. "Andando lì, sono sicure di non essere giudicate e di non vedersi rifiutare un aborto, quindi è più rassicurante".
Di fronte a questa situazione molto complicata, nell'autunno del 2020 Nada Peratović ha lanciato Hrabra Sestra (Sorella coraggiosa), una rete di mutuo aiuto per le donne che hanno difficoltà ad abortire. "L'obiettivo è ricordare che si tratta di un diritto fondamentale, ma anche rassicurare e sostenere le donne in questa prova", afferma l'avvocata. Oggi il collettivo riunisce circa cinquanta attiviste ed ha sede a Zagabria. "Ricordo in particolare una studentessa di 20 anni che ho aiutato. Non l'ha detto ai suoi parenti, nemmeno a sua madre, che lavora nel settore medico. Il fatto che non si fidi della sua stessa famiglia la dice lunga sulla mentalità attuale in Croazia”. A parte Nada Peratović, tuttavia, nessuna di Hrabra Sestra appare in pubblico, "per non avere problemi sul lavoro o altrove".
È come se queste donne venissero punite per aver voluto interrompere la gravidanza
Da parte della professione medica, molti nascondono la pratica. Per paura di essere criticati dai colleghi, o pochi ginecologi che praticano aborti preferiscono spesso mascherarli da aborti spontanei, soprattutto sulla costa dalmata, nota per il suo conservatorismo. La tecnica è consolidata, spiega Daniela Drandić dell'ONG Roda: "Quando una paziente si presenta per abortire, il medico le dice di tornare dopo le 16, quando non c'è la segretaria. Quando la paziente torna, il medico nota che ha un'emorragia e dichiara un aborto spontaneo... Il medico viene pagato per l'intervento, l'ospedale anche, quindi tutti sono contenti”.
Pochi sono i ginecologi che ricorrono all'aborto farmacologico, che è meno doloroso. Peggio ancora, alcuni eseguono il raschiamento senza anestesia. "È come se queste donne venissero punite per aver voluto interrompere la gravidanza", afferma Dorotea Šušak del Centro studi sulle donne. Ci ricorda che "questa non è affatto una pratica medica raccomandata in Croazia". Nel 2018, l'ex deputata Ivana Ninčević-Lesandrić aveva rivelato in parlamento di aver subito lei stessa questo maltrattamento ostetrico, sollevando un'accesa polemica nel paese. Ma anziché indignarsi, alcuni membri eletti della maggioranza conservatrice l'hanno rimproverata per aver osato parlare di un'intimità che li aveva "messi a disagio".
Anche trovare la pillola del giorno dopo può essere molto complicato. Nikola (nome di battesimo cambiato), un trentenne di Zagabria, ricorda di aver cercato invano di ottenerne una dopo il sesso, quando il preservativo si era rotto. "La mia ragazza si vergognava troppo ad andare in farmacia, così ci sono andato io. Alla prima mi hanno detto che non potevano darmela, alla seconda mi hanno detto che non potevano darmela, e così via. Alla fine ho capito che non era perché non ce n'erano più in magazzino, ma è che nessuno voleva darmele…”.
Alla luce di quanto accaduto in Polonia, si teme il peggio
"La pressione sociale sulle donne è molto forte in Croazia", conferma Dorotea Šušak. "Secondo il quadro di riferimento cattolico dominante, ogni donna dovrebbe avere la vocazione di diventare madre. In questo contesto, l'aborto sembra inconcepibile. Tuttavia, tutti sanno che l'aborto non è un metodo contraccettivo e che se una donna vi ricorre, è per buone ragioni”.
Nell'ex Federazione socialista, di cui la Croazia faceva parte, l'aborto era stato legalizzato molto presto, in alcuni casi già negli anni Cinquanta. E "la legge approvata nel 1978 era molto moderna per l'epoca", osserva la ginecologa Jasenka Grujić, che si è sempre battuta affinché le donne potessero disporre del proprio corpo come meglio credevano. Tuttavia, a distanza di oltre quarant'anni, "è giunto il momento di aggiornarla a causa dell'evoluzione delle tecniche", prosegue l'esperta. Al contrario, i movimenti cattolici fondamentalisti hanno esercitato a lungo pressioni sui tribunali affinché questo testo fosse riconosciuto come incostituzionale e quindi vietato.
Nel 2017, dopo un quarto di secolo di controversie, la Corte costituzionale ha finalmente confermato la validità di questo testo ereditato dalla Jugoslavia. I giudici hanno comunque invitato il legislatore a rivederlo "entro due anni". Cinque anni dopo, nulla è cambiato. E il governo conservatore di Andrej Plenković si guarda bene dall'affrontare questo tema così controverso.
Nel frattempo, le croate continuano a essere dissuase dall'abortire... Con un argomento sconvolgente: il denaro. Mentre il numero di ginecologi che praticano l'aborto in Croazia continua a diminuire, il prezzo dell'operazione è in aumento e raggiunge una media di 296 euro (il 40% del salario medio), che non viene rimborsato dalla previdenza sociale. Forse il caso di Mirela Čavajda spingerà finalmente le autorità ad agire. Ma questo non è certo rassicurante per le attiviste femministe. "Visto quello che è successo in Polonia, temiamo il peggio", riconosce l'attivista femminista Ivana Perić. "Soprattutto considerata la deriva clericale in atto in Croazia".
Quest'articolo è stato realizzato dai colleghi di Courrier des Balkans grazie al sostegno di Journalismfund.eu