La prima Palma d’oro per la Croazia. È quella per il miglior cortometraggio vinta da “The Man Who Could Not Remain Silent” di Nebojša Slijepčević nella sera finale del 77° Festival di Cannes
Se ha trionfato l’americano “Anora” di Sean Baker, e non ci sono stati premi per l’Italia, la Croazia vince per la prima volta l’ambito riconoscimento del più importante festival internazionale.
Un premio meritatissimo per il regista che ha già diretto diversi cortometraggi, documentari e serie tv. Una storia praticamente tutta ambientata dentro il vagone di un treno che, nel 1993, è fermato all’improvviso per un controllo in una stazione secondaria in un luogo non precisato dell’ex Jugoslavia. Il passeggero Dragan, che stava dormicchiando, si alza e si aggira nervosamente per il corridoio mentre alcuni militari salgono a bordo per l’ispezione. Nello scompartimento si presenta un soldato arrogante che chiede i documenti a tutti, compreso allo spaventato Milan che non l’ha con sé. Il film concentra in pochi minuti il senso della fratricida guerra degli anni ‘90, soffermandosi molto sui volti dei personaggi, facendo uscire il loro smarrimento e le loro paure. Il cortometraggio di Slijepčević è ispirato a una vicenda realmente accaduta e rende onore alla dirittura morale di un uomo che si sacrificò per salvare un altro.
Il premio di miglior attore è andato a Jesse Plemons, interprete della produzione internazionale “Kinds of Kindness” del greco Yorgos Lanthimos (“Povere creature!”) con Emma Stone, che uscirà nelle sale italiane il 6 giugno.
Il cinema balcanico era rappresentato in concorso dal romeno “Trei kilometri pana la capatul lumii – Tre chilometri alla fine del mondo” di Emanuel Parvu con Laura Vasiliu, Adrian Titieni e Bogdan Dumitrache. È estate sul Delta del Danubio, a poca distanza da Tulcea dove studia il diciassettenne Adrian che è tornato a casa per le vacanze. Una sera il ragazzo incontra un turista e, dopo una chiacchierata, gli mostra la puntura di un riccio sulla mano e l’estraneo gli lecca il dito. Qualcuno assiste alla scena e aggredisce l’adolescente, che rincasa pieno di botte, tanto che i genitori lo accompagnano al pronto soccorso e denunciano l’accaduto. Si scopre che il padre ha un debito con Zentov, un tale con molte connessioni con i poteri locali, e sono stati proprio i figli di questi a picchiare Adrian. Nell’intreccio entrano anche il poliziotto Pandele, che vuole andare presto in pensione senza fastidi, e il pope, che eseguirà un rito tra la preghiera e l’esorcismo per “guarire” il ragazzo.
L’attore e regista, al terzo lungometraggio dopo “Meda sau Partea nu prea fericita a lucrurilor” (2017) e “Marocco” (2021), imbastisce una storia che da un piccolo episodio si allarga progressivamente a coinvolgere un paese intero e rivelarne i piccoli segreti e il bigottismo. In questo ricorda un po’ la progressione de “Il caso Kerenes” di Peter Calin Netzer (Orso d’oro a Berlino nel 2013), senza però alzare il tiro alla politica. “Trei kilometri pana la capatul lumii” è un buon film, ha tutte le caratteristiche del cinema romeno fatto bene (pur non usando insistiti piani sequenza) non ha il passo di Cristian Mungiu, del quale condivide parecchi temi, o Cristi Puiu.
Tra le proiezioni speciali applausi per “The Invasion” dell’ucraino Sergei Loznitsa (“Austerlitz”, “My Joy – Schaste moe”), che dieci anni dopo il documentario “Maidan” e sei dopo “Donbass”, torna a raccontare la situazione del suo Paese, mostrando come il suo Paese resiste all’aggressione russa. Senza didascalie ovoce narrante, si succedono diversi episodi in diverse zone dell’Ucraina, tra funerali di soldati a Kyiv, allarmi aerei nelle scuole, libri mandati al macero, attrici che portano aiuti al fronte, feriti in ospedale, soldati amputati in riabilitazione in piscina o in palestra, ponti distrutti, senza far vedere né Zelensky né Putin. Loznitsa non mostra neppure esplosioni (sebbenesi odano in lontananza) o azioni di guerra, solo chi ne paga le conseguenze. Forse al documentario manca la scena forte o forse ci stiamo assuefacendo alle immagini.
Fuori gara anche il bel documentario “Nasty – More Than Just Tennis” del romeno Tudor Giurgiu sul celebre tennista Ilie Nastase a partire dall’anno cruciale 1972, con la vittoria agli Us Open e le finali a Wimbledon e in Coppa Davis. Tanti testimoni, dall’amico e compagno di squadra (e poi manager) Ion Tiriac ai rivali Jimmy Connors e John McEnroe a Bjorn Borg, Boris Becker, Yannick Noah e Mats Wilander, per un tennista di che ha portato il tennis da sport d’élite a popolare, rendendolo spettacolare anche con i siparietti e le proteste con gli arbitri. Giurgiu usa interviste e tanto materiale d’archivio per raccontare lo sport oltre Cortina di ferro, i trucchi per guadagnare qualcosa (Tiriac e Nastase compravano beni e merci che rivendevano a Bucarest), l’aiuto alle connazionali Ruzici e Simonescu a entrare nel circuito tennistico internazionale, il clima intorno alla finale di Davis in casa fino al 1989 e la caduta del regime di Ceaușescu.
Nella sezione parallela Un certain regard premio per “The Shameless” del bulgaro Kostantin Bojanov (“Avé” del 2011) all’attrice protagonista Anasuya Sengupta. Un film indiano in tutto e per tutto, dall’ambientazione alla vicenda ai temi, un thriller fosco nei bassifondi di Delhi, tra prostituzione, ingiustizie sociali e politica marcia e corrotta.
Deludente l’esordio registico dell’attrice greca Ariane Labed, moglie di Lanthimos, con “September Says”, un dramma familiare ambientato in Irlanda che riprende tutti gli usurati stilemi del cinema ellenico recente. Una madre che fa fotografie assurde alle due figlie adolescenti, July bullizzata anche a scuola e September prevaricatrice fino a un’evoluzione delirante. Labed fa un film sulla manipolazione, le stranezze, dove tutto è programmatico fin dai nomi delle ragazze e gratuito. E il film (che nella prima scena si rifà platealmente “Shining” e “Miss Violence”) è fastidioso come lo stridore del coltello sul vetro della finestra quando le ragazze lo incidono.