Alojzije Stepinac (primo da destra)

Alojzije Stepinac (primo da destra)

Figura divisiva nel corso dei decenni, nel 1941 l’allora arcivescovo di Zagabria Alojzije Stepinac salutò con favore l’instaurazione dello Stato indipendente croato ustaša (NDH). Un'analisi

20/07/2017 -  Francesca Rolandi Fiume

L’intreccio tra politica quotidiana e memoria storica, la strumentalizzazione di controversie originate dalla Seconda guerra mondiale, l’identificazione con attori storici slegati dal loro contesto originario, sono alcuni dei tratti che maggiormente caratterizzano il discorso pubblico nella Croazia odierna, dove partigiani e ustaša si sono ritagliati loro malgrado uno spazio centrale nella scena politica.

Non da meno è la vicina Serbia, dove, a seguito di un processo che dura da oltre un quindicennio, gli appartenenti al movimento cetnico, nato per lottare contro l’occupante e presto trasformatosi in collaborazionista, sono stati riabilitati in concomitanza con la criminalizzazione del movimento partigiano.

Potrebbe dunque stupire la scarsa attenzione che è stata tributata dai media di entrambi i paesi ai lavori della commissione mista cattolico-ortodossa, istituita per discutere la canonizzazione del cardinale Stepinac.

Durante la II Guerra mondiale

Figura divisiva nel corso dei decenni, nel 1941 l’allora arcivescovo di Zagabria Alojzije Stepinac salutò con favore l’instaurazione dello Stato indipendente croato ustaša (NDH), che si rese responsabile di numerosi massacri della popolazione serba ed ebraica, oltre che della conversione forzata di centinaia di migliaia di serbi ortodossi.

La simpatia del clero cattolico per le politiche dell’NDH fu maggioritaria ma non uniforme: furono infatti oltre un centinaio i sacerdoti che combatterono tra le fila dei partigiani, sebbene la loro memoria sia finita nel dimenticatoio.

All’indomani della Seconda guerra mondiale i rapporti tra l’appena instaurato regime comunista e gli alti prelati cattolici si aprirono all’insegna del conflitto, nonostante un primo tentativo di mediazione, attraverso una proposta inaccettabile avanzata dallo stesso Tito, secondo il quale la Chiesa cattolica croata si sarebbe dovuta allontanare da Roma, liberandosi dell’aura di quinta colonna di un potere esterno.

Nel 1946 Stepinac, dopo essersi schierato apertamente contro il regime jugoslavo, fu portato alla sbarra insieme a un gruppo di ex criminali di guerra ustaša e condannato a 16 anni per collaborazione con le autorità dell’NDH e con gli occupanti, oltre che per aver contribuito alle persecuzioni contro la popolazione serba ed ebraica.

Si trattò evidentemente di un processo politico, durante il quale il cardinale accusò con coraggio il regime delle repressioni ai danni del clero

Inoltre, Stepinac, come sarebbe stato provato in seguito da fonti rese pubbliche, aveva più volte protestato in via privata presso le gerarchie ustaša in occasione dei peggiori massacri e avrebbe cercato di portare l’NDH dalla parte degli alleati verso la fine della guerra.

Tuttavia, aveva mantenuto una prossimità esplicita – come vicario militare e capo della commissione per le conversioni – con un regime fondato sin dalle origini su una volontà di pulizia etnica a spese dei suoi cittadini, all’interno quale alcune figure provenienti dal clero si macchiarono di atroci delitti, come avvenne nel caso del frate francescano Miroslav Filipović, per alcuni mesi a capo del campo di sterminio di Jasenovac.

Il dopoguerra

Nel dopoguerra, Stepinac abbandonò invece la posizione di pretesa equidistanza dal potere secolare per scagliarsi con veemenza contro il regime comunista.

Nel 1952-1953, sullo sfondo della guerra fredda ma anche della crisi tra Italia e Jugoslavia relativa alla questione di Trieste, papa Pio XII innalzò Stepinac, prigioniero in Jugoslavia, alla carica di cardinale e scomunicò Tito.
Il mito di Stepinac martire del comunismo iniziò a circolare nelle pubblicazioni della variegata emigrazione croata, all’epoca sostenuta attivamente dal Vaticano. La galassia dell’emigrazione, infatti, per quanto frammentata, era accomunata dal non avere mai reciso i legami con l’NDH, vista da alcuni come un modello ideologico, da molti come il sogno della sovranità croata, bramata da secoli e troppo presto perduta.

Dopo aver scontato 6 anni di carcere, Stepinac venne mandato agli arresti domiciliari nel suo villaggio natale dove morì nel 1960.

Nel frattempo però il clima politico era cambiato sia sul piano internazionale sia con i pontificati di Giovanni XXIII e Paolo VI, durante i quali iniziò un prudente cammino negoziale che avrebbe portato alla fuoriuscita degli elementi croati più estremisti dalle istituzioni vaticane e alla visita del presidente Tito in Vaticano nel 1971.

L’insistenza vaticana sulla figura del martire anticomunista Stepinac passò dunque in secondo piano, in cambio di un ampliamento delle libertà religiose in Jugoslavia.

Guerra di santi e beati

Il mito di Stepinac, tuttavia, tornò in auge in ambienti della Chiesa croata fin dagli anni ‘70, sullo sfondo dell’ampliamento dello spazio di manovra delle gerarchie religiose ma anche della crescente frustrazione dell’elemento croato seguente alla Primavera croata del 1971.
Una tendenza che, nel corso del decennio successivo, trovò ulteriore legittimazione sia da parte del Vaticano, durante il pontificato di Giovanni Paolo II, che sul piano politico interno, con l’irruzione dell’emigrazione croata sulla scena politica. La figura di Stepinac uscì dall’ombra delle preghiere dei fedeli per entrare nel discorso politico, rivendicato come eroe e martire dal nazionalismo croato e come istigatore del genocidio dai nazionalisti serbi.

Alla fine della guerra in Jugoslavia il clima era maturo per la beatificazione del cardinale croato che avvenne nel 1998, nonostante le critiche che si concentravano intorno alla sua figura, da parte serba, ma anche di numerose organizzazioni ebraiche.

La Chiesa ortodossa serba rispose con la canonizzazione di 8 nuovi santi, 7 dei quali uccisi dagli ustaša durante la Seconda guerra mondiale. Ma la guerra dei santi e dei beati non era ancora finita.
Nel 2003 venne santificato il vescovo Nikolaj Velimirović, nonostante una velata opposizione del patriarca Pavle che sottolineò come le sue abitudini non fossero state sempre a livello della sua spiritualità, portando come esempio il suo tabagismo.

In realtà, un altro vizio decisamente più controverso macchiava la sua figura: il vescovo di Ohrid e Žica si era infatti distinto fin dagli anni ‘30 come ammiratore di Adolf Hitler e ispiratore del nazionalismo cristiano serbo che sarebbe poi confluito nel movimento filo-nazista di Dimitrije Ljotić, sebbene, ironia della sorte, sarebbero stati proprio i nazisti a deportarlo a Dachau, persecuzione alla quale sopravvisse per poi prendere la via dell’emigrazione.

Chiese e nazionalismo

Dall’escalation nazionalista degli anni ‘80 ad oggi, la Chiesa cattolica croata e la Chiesa ortodossa serba hanno mantenuto un rapporto privilegiato con i partiti che di volta in volta si sono fatti portavoce di posizioni nazionaliste, spingendo ai margini quei settori, pur esistenti, che si erano mostrati favorevoli a un dialogo ecumenico, in parte sostituiti dagli elementi estremisti nutriti dalle diaspore.

In questo contesto si inserisce la beatificazione e canonizzazione di figure divisive, ricondotte dall’altra parte a persecuzioni nazionali e che nel migliore dei casi mantennero atteggiamenti ambigui nei confronti di attori politici responsabili di crimini sulla popolazione civile.

La situazione corrente in Croazia e nella vicina Serbia si prospetta però interessante per le spinte contrastanti che vi agiscono. Da una parte il clima tra Zagabria e Belgrado è andato deteriorandosi fin dal 2014, alimentando una tensione alla quale non sono rimaste estranee le gerarchie religiose.

Dall’altra, papa Bergoglio ha manifestato con sempre maggiore forza l’idea della necessità di un dialogo ecumenico e ha premuto per un riavvicinamento con il patriarca russo Kirill, coronato dall’incontro a Cuba nel febbraio 2016.

Commissione su Stepinac

Come queste due spinte si intersecheranno rimane una domanda aperta, ma forse uno dei primi segnali potrebbe essere la Commissione creata dal Vaticano su richiesta del patriarca ortodosso Irenej per giungere a una conclusione sulla figura di Stepinac e sul suo ruolo nella Seconda guerra mondiale, articolata attraverso una serie di incontri.

La conclusione di un anno di lavori è arrivata il 12 luglio: le due chiese non sono riuscite a giungere a un giudizio comune, ma hanno sottolineato nei comunicati l’atmosfera di cordiale collaborazione in cui gli incontri si sono svolti.

Attendersi un risultato univoco avrebbe significato peccare di ingenuità. Stepinac, pur non avendo avuto un ruolo attivo negli eventi più sanguinosi, sconta la responsabilità morale di aver legittimato il regime che li aveva compiuti e di non esservisi pubblicamente opposto. Pensare che gli archivi resi disponibili avrebbero fornito materiale tale da far desistere una delle due parti dalle proprie convinzioni sarebbe stato irrealistico.

Sebbene in mancanza di date confermate, la canonizzazione di Stepinac, che non è mai stata considerata condizionata dai risultati dei lavori della commissione, potrebbe avvenire nel 2018, in cui ricorre il ventennale della sua beatificazione. Tuttavia, date le premesse, l’instaurazione di un clima di dialogo può essere già visto come un risultato potenzialmente foriero di implicazioni positive.