Gorski Kotar, confine tra Croazia e Slovenia. Una sorta di corridoio naturale, tra i monti, che migliaia di persone, da anni, percorrono lungo il loro cammino sulla Rotta Balcanica. In molti lo chiamano The Game ma del gioco ha molto poco. Un reportage
(Pubblicato originariamente da Open Migration )
Esiste un elemento profondamente innaturale nel filo spinato tra gli alberi. Come se anche a occhio nudo venisse marcato un senso di inopportuno, di inatteso, di estraneità. Pensato per fermare l’altro, chiunque esso sia, finisce per essere esso stesso l’altro.
Benvenuti nel Gorski Kotar (letteralmente ‘distretto montano’), confine tra Croazia e Slovenia. Una sorta di corridoio naturale, tra i monti, che migliaia di persone, da anni, percorrono lungo il loro cammino sulla Balkan Route dalla Bosnia Erzegovina alla Slovenia. Per essere poi respinti indietro.
Fine giugno, esterno giorno. Uno dei tanti giorni lungo la Balkan Route. Un gruppo in fuga, cercavano di attraversare illegalmente il confine croato-sloveno, ma sono stati traditi dal pianto di un bambino. Un camion con targa turca è stato fermato dalla polizia slovena all’altezza di Ilirska Bistrica, località a pochi chilometri dal confine di Rupa, circa 40 chilometri da Fiume, per un controllo di routine. Durante la verifica, uno degli agenti ha sentito che dall’interno del Tir proveniva il pianto di un bambino: ha subito ordinato all’autista di aprire la portiera posteriore. A quel punto dall’interno sono sbucate 22 persone, provenienti da Siria, Iraq e Yemen, tra cui ben otto minorenni.
La polizia ha accertato che tutte queste persone sono entrate illegalmente sul territorio sloveno, e perciò sono state espulse in Croazia, ossia da dove erano arrivate. L’autista, un 59enne cittadino turco, è stato fermato e sarà denunciato per trasporto illegale di immigrati.
Intanto, altrove, altri tenteranno. Alcuni lo chiamano The Game , un modo di provare a farsi beffa del proprio stesso destino. Il filo spinato è nato dopo il 2015, quando d’improvviso i cuori dei politici e dei media si aprirono per una breve finestra temporale. Poi tutto si è chiuso, imprigionando lungo il cammino migliaia di vite in fuga. Oggi si assiste, invece, a una sorta di teatro dell’assurdo: i flussi continuano, nessuno parla o lavora a soluzioni, si annunciano nuovi muri.
Mentre l'allora ministro degli Interni italiano Matteo Salvini prometteva nuovi muri con la Slovenia, il premier sloveno, Marjan Šarec, ha voluto incontrare i sindaci delle aree maggiormente interessate dal fenomeno, dove – secondo fonti della polizia slovena – nella prima metà del 2019 sono state fermate circa 5.300 persone, ovvero il 47 per cento in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.
Nello stesso periodo sono finiti nelle maglie delle forze di sicurezza 130 trafficanti, quasi tutti stranieri. “E’ contro questa rete di criminali che stiamo concentrando i nostri sforzi”, hanno dichiarato il ministro degli Interni sloveno Boštjan Poklukar e la direttrice delle forze di polizia Tatjana Bobnar. I funzionari di Lubiana hanno annunciato il rafforzamento degli organici di polizia; se sarà necessario, in un secondo momento anche dell’esercito.
Concretamente Šarec ha parlato di incremento degli organici, investimenti in nuove attrezzature – è previsto l’uso di droni per controllare meglio le aree interessate – e di barriere fisiche: una di quattro km da piazzare subito, l’altra – un reticolato di 40 km – arriverà tra quest’anno ed il prossimo. Ecco servito Salvini, con una prova di zelo e militarizzazione del confine con la Croazia. Il premier sloveno parla di "presenza dello stato per far fronte a una pressione degli immigrati che sta aumentando".
La stampa slovena non ha perso l’occasione di notare come l’annuncio di una linea più dura al confine croato, più che una mano tesa agli abitanti del posto, sia un messaggio ai governi di Italia e Austria e agli stati lungo la rotta balcanica. Per dire, la Slovenia sta facendo il possibile ed è in grado di controllare la situazione. Intanto, in questo sistema che è in competizione permanente per mostrare i muscoli, ma che non lavora a risolvere le situazioni, tra i monti del Gorski Kotar, come al sud della Croazia, la pressione è forte. Almeno quanto i metodi della polizia croata. Lo spiega Tea Vidović, del Centre for Peace Studies a Zagabria, una delle voci della società civile croata che da anni monitora, denuncia e fa pressione nel paese per una svolta nelle politiche sulle migrazioni in generale e sul diritto di protezione internazionale nello specifico.
"La situazione dei rifugiati in Croazia è cambiata dal 2015 per quanto riguarda l’accesso al sistema di asilo/sistema di protezione internazionale. Ciò significa concretamente che le persone che hanno bisogno di protezione internazionale non possono più accedervi facilmente a causa della politica restrittiva dell’UE che la Croazia sta seguendo. In pratica, ciò significa che alle persone che giungono alle frontiere e chiedono asilo viene negato un diritto. Secondo testimonianze di rifugiati e documenti video pubblicati da attivisti e media che lavorano sul campo, ma anche secondo rapporti di organizzazioni internazionali, la polizia croata sta eseguendo quotidianamente violenti respingimenti di migranti/rifugiati che cercano di attraversare la frontiera e chiedere asilo in Croazia".
"Queste testimonianze sono la prova dell’espulsione illegale e collettiva violenta di migranti e rifugiati dal territorio croato e dell’UE - racconta Tea Vidović - dopo il 2015, la Croazia si è trovata di fronte a maggiori richieste di protezione internazionale (secondo i dati del ministero degli Interni croato): fino al 2015 il numero era di 4.770 richieste, dopo il 2015 (fino al 2018) si è arrivati a 5.151. Si è registrato un aumento anche nel numero delle risposte positive per la protezione internazionale: fino al 2015 che era di 131, dopo il 2015 (fino al 2018) 619. Questa era una novità per il sistema. Ciò ha portato a un aumento del numero di attori che sono attivamente coinvolti nella pratica dell’integrazione, sia nel settore istituzionale che in quello della società civile".
"La pratica dell’integrazione funziona e ha un maggiore coordinamento tra gli attori, ma a livello politico ci sono delle lacune – spiega Tea – si osservano miglioramenti nel settore dell’istruzione e dell’occupazione, i bambini sono automaticamente iscritti alla scuola elementare, più persone sono occupate ,ma soprattutto in posizioni poco qualificate e a basso reddito, a causa della maggiore necessità di forza lavoro in Croazia, poiché molti croati sono emigrati in Germania o in Irlanda".
Tuttavia, il diritto e le necessità di base per le persone che arrivano in una nuova società è la lingua e questo aspetto non è organizzato in modo sistematico a causa di ostacoli burocratici. L’inclusione nel sistema educativo per i bambini di età superiore ai 15 anni e per i minori non accompagnati non avviene, perché il sistema non sa come iscriverli. In conclusione, la politica di integrazione è ancora superficiale, con obiettivi di bassa qualità e a breve termine.
"La pratica dell’integrazione funziona grazie agli sforzi della società civile e del volontariato, ma vediamo sempre più spesso che i finanziamenti statali vanno nella direzione di esternalizzare alla società civile il lavoro di assistenza sociale. Il governo ha sviluppato un piano per l’alloggio dei rifugiati in diverse comunità locali della Croazia, e anche se l’approccio decentrato all’integrazione è lodevole, l’attuazione è carente, a causa della mancanza di informazioni e sostegno alle comunità locali, ma anche di sostegno, coordinamento e di un piano per l’integrazione dei nuovi arrivati. Alcune città non hanno mai avuto rifugiati nelle loro zone, quindi non esiste una rete di sostegno e le conoscenze per la vita interculturale. La Croazia non ha una politica migratoria (dalla fine del 2015) con la spiegazione, da parte del ministero dell’Interno (che è responsabile) di come questa non sia necessaria perché esiste una legge sulla protezione internazionale: ciò che è una chiara dichiarazione di ignoranza verso il processo d’integrazione”, commenta Tea.
Il corso del fiume Kupa è seguito, passo passo, dal filo spinato. I posti di frontiera di quella zona sono piccoli e, guardandoli, nulla sembra più lontano dell’idea di Ue senza confini. In un processo di ‘frontierizzazione’ che mai come nella ex-Jugoslavia fa riflettere. Tutto attorno, una sorta di mappa della de-industrializzazione, tra borghi spopolati, seconde case, luoghi per turismo in mountain-bike o trekking. Uno dei settori chiave per una Croazia che continua a veder emigrare i suoi cittadini.
Una serie di segherie, che restano uno dei pochi poli ancora vitali, attorniati da vecchie miniere abbandonate. Uno di questi centri è Gerovo, dove per ironia della sorte, negli anni ’50, c’era un centro per rifugiati che tentavano di vivere nella Jugoslavia piuttosto che in altri paesi più duri del blocco orientale. E qui la gente, come racconta qualcuno dei ricercatori delle università di Fiume e Zagabria che stanno lavorando sul tema, all’inizio l’accoglienza era buona. Una cultura di montagna, l’attitudine all’aiuto: le seconde case venivano lasciate aperte, i migranti trovavano cibo e giacigli per la notte. Ora il clima, per reali episodi, per leggende metropolitane o per un diverso approccio del discorso pubblico di media e politica, è cambiato.
E’ nato un gruppo Facebook, Gdje su viđeni migranti , che sembra un concentrato delle paure di tutti. Segnalano vestiti abbandonati nei boschi, inviano allarmi alla polizia, si scambiano vere o presunte terribili avventure (che però sono sempre capitate a qualcun altro) di devastazione nelle case e profanazione, addirittura: “Non lasciate crocifissi, si accaniscono ancora di più”.
La memoria, però, lascia tracce. Uno dei centri della zona, dove spesso capita che arrivi una persona esausta e logora, dall’Iraq, dall’Afghanistan, dalla Siria, che distrutta dai tentativi su montagne che non ha mai visto in vita sua si ‘consegna’ in paese alla polizia locale che lo rispedirà in Bosnia Erzegovina per ricominciare ancora. Ecco, uno di questi paesi è Moravice, un simbolo di convivenza durante la devastante guerra nella ex-Jugoslavia. In paese c’è un cartello che invita alla partita della ‘pace’, tra serbi di Croazia e croati di Serbia. Eppure di altre guerre e di altri rifugiati, per ora, nessuno ne vuole sentir parlare. Come conferma Tea Vidović.
“I candidati al Parlamento europeo in Croazia non hanno parlato molto della migrazione. Così, il nostro centro ha organizzato un dibattito pubblico in cui abbiamo invitato i rappresentanti delle organizzazioni internazionali coinvolte sulle migrazioni: Human Rights Watch e Amnesty International . Al dibattito erano presenti rappresentanti della sinistra e dell’estrema destra, mentre i partiti che hanno ottenuto il maggior numero di voti non hanno partecipato. La migrazione come argomento polarizza l’opinione pubblica in Croazia e i partiti ignorano il dibattito su di esso per salvare il loro voto. Tuttavia, non accettiamo questa situazione e il centro ha elaborato una lista di richieste verso i futuri membri del Parlamento europeo.
Chiediamo che si ponga fine alla violenza che si sta verificando alle frontiere e alle indagini approfondite, che si implementino le vie legali per i rifugiati, un sistema di asilo funzionale, la cessazione della cooperazione dannosa con governi come Afghanistan, Libia, Turchia, ridurre e limitare la giurisdizione di Frontex alle frontiere e, infine, di destinare fondi all’integrazione e misure per includere e garantire pari opportunità, e ridurre gli investimenti per attrezzare le frontiere e rimpatriare i migranti verso i cosiddetti “paesi terzi”.
Questa è una posizione condivisa da altre realtà della società civile, anche se da quel punto di vista la situazione in Croazia è complessa. Nell’ultimo anno abbiamo assistito ad una censura nei confronti della società civile, in particolare nei confronti dei difensori dei diritti umani che stanno mettendo pubblicamente in guardia contro i violenti respingimenti alle frontiere, tra tutti il Centro per gli studi sulla pace e il gruppo Are You Syrious? .
Il Centro per gli studi sulla pace è presente nei centri di accoglienza croati da 16 anni, dando sostegno ai rifugiati ma anche aprendo spazi per i cittadini e le comunità locali per il volontariato, che è un aspetto molto importante dello scambio interculturale e del sostegno. Questo lavoro è stato fermato un giorno con la spiegazione di come questo sostegno non sia più necessario. Un paese senza una politica migratoria e con un sistema di integrazione instabile esclude il sostegno di cui c’è molto bisogno, perché? Stiamo attraversando un processo di restringimento degli spazi civici che ci mette in una posizione in cui dobbiamo trovare alternative per continuare a fare ciò che riteniamo fondamentale per proteggere i diritti umani. Insieme ai volontari stiamo organizzando attività al di fuori del Centro di accoglienza. Are You Syrious? sta facendo lo stesso con le loro attività per i bambini.
La società civile ci prova, ma in un contesto non facile. Spiega Tea: “Le accuse di violenza della polizia da parte di Amnesty International sono state presenti nei media per un po’ di tempo, ma il ministero degli Interni le ha respinte al mittente sostenendo che rispettano gli standard Ue e le leggi nazionali. L’interpretazione del governo non è corretta, però, e informa male l’opinione pubblica, dove mancano spazi di dibattito. Qualche tempo dopo il rapporto di Amnesty International, le associazioni Balkan Info Van, No Name Kitchen , Sos Team Kladusa , assieme al nostro centro e a Initiative Welcome e Are You Syrious? hanno pubblicato il 5° Rapporto sui respingimenti con un allegato speciale – interpretazione giuridica su “Espulsione collettiva, o perché il comportamento del Ministero dell’Interno è contro il diritto europeo e nazionale“.
Il ministero dell’Interno sta interpretando in parte la legislazione croata ed europea per giustificare la violazione dei diritti. La campagna presidenziale pre elettorale sta già mostrando il volto della politica contro gli immigrati, dove l’attuale presidente Kolinda Grabar Kitarović sostiene il ministro degli Interni e rivitalizza la violenza al confine. La maggior parte delle istituzioni stanno fallendo nel fare il loro, e il lavoro di quelle indipendenti (come l’Ufficio del Difensore civico) è stato limitato, quindi la responsabilità rimane nelle mani dei media, della società civile, degli esperti e dei cittadini. Se oggi permettiamo alla polizia questo tipo di trattamento nei confronti dei rifugiati e dei migranti – allora permettiamo questo tipo di trattamento nei nostri confronti, perché la linea è molto sottile.” Proprio nei giorni scorsi, durante una visita ufficiale in Svizzera, la presidente croata ha rilasciato una dichiarazione controversa .
“Ho parlato con il ministro dell’Interno, il capo della polizia e gli agenti alla frontiera, i quali mi hanno assicurato che la polizia non fa ricorso a un uso eccessivo della forza. Certo, è necessario usare un po’ di forza quando si effettuano i push-back, ma dovreste vedere quell’area”, ha dichiarato in un’intervista rilasciata all’emittente SRF. Un po’ come fosse troppo poco o non troppo, come non si parlasse di persone.
Che restano bloccate in un gioco che non vince nessuno.