Perché si è scelto di vincolare il cammino europeo della Croazia esclusivamente alla consegna del generale Ante Gotovina e non al rispetto dei diritti delle minoranze che vivono o che vogliono rientrare nel paese? Se lo chiede Jacopo Giorgi, in questo suo editoriale
Di Jacopo Giorgi*
Al di là delle speculazioni su di un possibile, quanto inaspettato, accordo sulla consegna del Generale Gotovina, è francamente difficile comprendere come l'inizio dei negoziati della Repubblica Croata con l'Unione Europea sia stato esclusivamente condizionato ad una positiva valutazione del livello di cooperazione tra lo stato candidato ed un'instituzione penale internazionale, nella fattispecie l'ICTY.
Senza voler sminuire il ruolo giocato dal Tribunale dell'Aja in una sfida all'impunità internazionale per crimini di guerra, l'attenzione di Bruxelles si sarebbe dovuta preferibilmente spostare su questioni ben più urgenti ed immediate e che nella realtà quotidiana croata continuano a costituire un ostacolo alla piena riabilitazione del paese.
Il ritorno e l'effettiva integrazione delle minoranze (in particolar modo quella Serba) è infatti tutt'oggi grandemente impedito in Croazia da una legislazione nazionale preclusiva e da un atteggiamento da parte delle autorità locali che altro non si può definire se non fortemente ostruzionistico.
Crimini minori compiuti nel periodo 1991-1995 e, talora, la semplice partecipazione alle attività militari dell'Esercito della Republika Srpska Krajna continuano ad essere bollate dalle autorità croate come "criminalità di guerra". A questo riguardo, arresti strategici compiuti in occasione del ritorno, o della semplice visita alle proprietà occupate in Croazia, continuano ad avere un effetto deterrente nel processo di ritorno dei Serbi di Croazia.
La legislazione proprietaria in vigore nella Croazia post-guerra non riconosce i 'tenancy-rights' risalenti al periodo Jugoslavo, che vengono sostanzialmente declassati ad interessi legittimi di ben poco conto rispetto alla piena parificazione ad un diritto proprietario. La questione è tanto più grave se si pensa che membri di minoranze Serbe di Croazia rifugiate in Republika Srpska sono stati invece costretti, da una legislazione di stampo ben diverso e da un monitoraggio ben più attento da parte delle istituzioni internazionali, ad abbandonare le case che avevano occupato a favore dei titolari di diritti di abitazione Croati e Musulmani.
Il riconoscimento di diritti di cittadinanza rimane poi una mera chimera per molti rifugiati Serbi. L'ottenimento o il riconoscimento della cittadinanza Croata per i Serbi di Croazia si perde infatti nei meandri di una legislazione costruita ad hoc per impedirne un'effettiva riabilitazione.
Le suddette questioni hanno oggi un impatto immediato sul vivere di larghe porzioni della popolazione della Croazia pre-guerra, sicuramente ben maggiore dell'eventuale consegna di un criminale internazionale e, come dicevo, avrebbero meritato maggiore attenzione da parte di Bruxelles nel processo che sta portando alla determinazione dell'eleggibilità della Croazia quale futuro stato dell'Unione. In altri termini, pare che la valutazione prescinda da una corretta interpretazione dell'atteggiamento, sicuramente discriminatorio, dello Stato croato nei confronti delle minoranze presenti sul proprio territorio.
Sfortunatamente pare che tali considerazioni siano state invece sottovalutate sin dall'inizio del dialogo Zagabria-Bruxelles a favore invece di una valutazione rapporto di collaborazione con una struttura giudiziale, per altro ultimamente ricopertosi delle tinte fosche di un accordo politico.
*Jacopo Giorgi vive e lavora in Bosnia Erzegovina e si occupa di progetti di solidarietà internazionale