“Leica format” è il libro di una scrittrice croata che non ha mai rinunciato al suo essere jugoslava, Daša Drndić. Recensione

29/03/2019 -  Diego Zandel

Ho sentito molto la morte, il 5 giugno dello scorso anno, di Daša Drndić. Non solo perché le ero amico e, come tale, sono stato presentatore a Roma del suo straordinario romanzo “Trieste”, come è stato malamente intitolato “Sonnenschein”, ma anche perché se n’è andata pochissimi giorni prima di un’altra presentazione di un suo libro: “Il doppio” (“Doppelgänger”) che avevo contribuito a pubblicare in italiano, nella traduzione di Barbara Ivančić, per la Oltre Edizioni, in una collana da me diretta, presentazione che doveva avvenire a Trieste il 14 giugno, con Alessandro Mezzena Lona.

Pari alla tristezza di quel momento è la gioia nell’avere tra le mani un altro suo romanzo, “Leica format”, nella bella edizione de La nave di Teseo e nella magistrale traduzione di Ljiljana Avirović, la stessa traduttrice di “Sonnenschein”, che ci restituisce in italiano le doti funamboliche della grande scrittrice croata, che qui si dispiega in un’opera che riproduce istantanee di vita nel tempo, presente e passato, che lei ha scattato e magicamente tirate fuori da una sorta di cappello matto.

Storie vere, storie inventate, persone realmente esistite e personaggi da romanzo, città riconoscibilissime seppur non nominate, ad esempio Fiume, dove ha trascorso gli ultimi anni della sua vita, così come, pure, altre città che nomina per alcuni suoi passaggi, o descrive, come Belgrado, dove per una ventina di anni ha lavorato, tra l’altro, alla radio, si srotolano sotto i nostri occhi in una sequenza di fotogrammi che si fissano per sempre, nei loro colori, dal bianco e nero al seppia al più diverso cromatismo, sul nostro sguardo di lettori.

Lo sfondo è sempre la Storia, quella con la S maiuscola, vista attraverso combinazioni narrative che s’intrecciano tra loro. Si comincia con la storia di Antonia Host che parte per una città del sud Europa, sulla nave sulla quale viaggia canticchia, sbarca, lontano da casa “un migliaio di chilometri terrestri e chissà quante miglia marine”, trova alloggio e canticchia.

Si presenta al direttore del conservatorio di quella città mediterranea e si presenta come Lydia Paut: “Ho studiato in questa accademia, qui mi sono laureata e vorrei qui tenere lezioni per gli studenti”. In poco tempo le vengono riconosciuti i meriti, diventa molto amata, dà concerti da camera ma suona anche partiture solistiche. Tanto che il direttore le promette: diventerai il mio sostituto. “Antonia Host, ovvero Lydia Paut dice: Ciò mi renderà felice.”

Passano cinque anni, fino al concerto di un Capodanno, quando lei suona Liszt. Tra il pubblico una donna grassa, la quale, dopo il concerto, si avvicina a Lydia Paut e la smaschera “Tu non sei Lydia Paut. Tu sei Antonia Host. Vi conosco entrambe. Abbiamo studiato insieme in questa città, molto tempo fa”. Inutile la difesa di Lydia Paut (Antonia Host). “È impossibile, dice. Io non vi ho mai vista”. Uno slargo d’immagine, ed ecco tutta la biografia di Antonia Host, che lasciamo al lettore.

Seguono altre istantanee. Alcune portano alla lettura di Pessoa altre nel cuore di esperimenti genetici, all’Olocausto, alla impunità di coloro che hanno commesso quelle aberrazioni: richiami all’atmosfera cupa di “Sonnenschein”.

Poi la storia belgradese di Živka, che voleva essere chiamata Žile, una storia di pazzia e necrofilia. Altre vite ancora, vite sulle quali la stessa autrice s’imbatte e la cui storia si sviluppa partendo da pretesti apparentemente banali come, ad esempio, una visita presso un negozio di antiquariato a Fiume, da cui l’intrecciarsi con l’esistenza d’inizio secolo scorso del signor Ludwig Jacob Fritz, un colto libertino, i cui libri sono arrivati fino a noi, e del quale l’autrice ci regala momenti in color seppia, con indicazioni di vie, il cui nome è cambiato con i regimi che si sono avvicendati nel tempo, e perciò carichi di un certo struggimento che ritorna pagine dopo con un nuovo ritrovamento: quello di una cartolina (che “Leica format” riproduce stampata) di una donna con una rosa tra i capelli, dalle spalle denudate, in piedi accanto a un divano sul quale posa una gamba mentre guarda vezzosa e malinconica una rosa.

Sulla cartolina le indicazioni non tanto criptiche di una casa di appuntamento e il nome della donna (“16 anni, Ponny, Melanie, Clara – buona scuderia”) il tutto firmato L.J.F. Ma non sono forse le iniziali di quel Ludwig Jacob Fritz incontrato dal lettore, per altre circostanze, pagine prima, e che, tra l’altro, avevano dato il via a disquisizioni sulla sifilide, diffusa al tempo del signor Fritz?

“Leica format” è il libro anche di una scrittrice croata che non ha rinunciato al suo essere jugoslava. Il tempo attuale – il libro è uscito nel 2003, quindi certi temi erano più sentiti – è fatto oggetto di un’ironia che sfiora il sarcasmo. Finita la guerra nella ex Jugoslavia, saliti i nazionalismi, c’è il teatrino patriottardo della lingua, che in Croazia misconosce vocaboli serbi, principalmente, ma anche parole rimaste dal passato italiano.

A riguardo, Daša Drndić ci regala pagine esilaranti che rivelano la sua grande capacità rappresentativa coltivata negli anni in cui scriveva sceneggiati per la radio a Belgrado. Racconta come, entrata in un negozio per acquistare tre portafogli piccolini da regalare, si scontra con la commessa e con altre clienti sul nome degli stessi in “puro” croato, dopo che una signora, entrata dopo di lei, la spintona per chiedere un mišćlafle, al che la commessa le risponde di non sapere di cosa si tratta. Di fronte all’improvviso “silenzio imbarazzante”, interviene allora Daša che cerca di aiutarla, dicendo che “qui è conosciuta come škovacera” (dal dialettale fiumano “scovazera”, cioè pattumiera). Ma subito una terza cliente, punta sul vivo, si fa sentire: “Queste sono parole straniere (…) il croato ha una parola per quella roba” frase dalla quale prende avvio una disquisizione che porta Daša, o il personaggio al quale presta il suo io narrante, ad affermare che “in croato la cosa migliore è usare l’espressione lopatica za smeće” , e subito guardata “con visibile disprezzo, con aria di sfida” dalla commessa, alla quale risponde confermando con tutta l’ironia “di credere che ufficialmente, culturalmente e patriotticamente esista solo lopatica za smeće” per poi, più tardi, dopo altre disquisizioni in merito, uscire dal negozio senza aver acquistato i portafogli, commentando: “Spesso mi accadono conflitti che riguardano la lingua e gli accenti a distrarmi dal mortorio che altrimenti è la mia pacifica, noiosa vita”.

Ma sicuramente Daša Drndić, con i suoi libri, non l’ha resa noiosa a noi lettori, la vita.