I dati
I dati sui profughi rientrati in Croazia forniti da UNHCR e ODPR (rispettivamente, l'ufficio dell'Alto Commissariato per i Rifugiati e il Dipartimento governativo per i rifugiati e gli sfollati) parlano di circa 125 mila persone in totale. Sulla base di un'indagine compiuta tra i rappresentanti della comunità serba e tra le organizzazioni nongovernative che si occupano dei profughi rientranti o ritornati (Milorad Pupovac, Presidente del Consiglio nazionale serbo di Croazia, Jovica Vejnovic, segretario generale del Consiglio nazionale serbo - SNV e Ljubo Manojlovic, segretario generale del Forum democratico serbo) le cifre riportate sono abbastanza corrispondenti al dato formale, ma vanno prese con riserva: infatti un quarto circa dei profughi - in massima parte cittadini croati di nazionalità serba - torna soltanto per ottenere i documenti croati, vendere la proprietà e partire per altri paesi o sistemarsi nella parte serba della Bosnia ed Erzegovina o talvolta nella stessa Serbia. Dunque, rispetto alle cifre presentate, il ritorno effettivo riguarda il 75% dei casi.
La maggior parte dei rientrati proviene dalla Federazione Jugoslava, soprattutto dalla Serbia. Molto minore invece è il numero di quanti arrivano dalla Bosnia ed Erzegovina, dove i rifugiati possono ancora vivere praticamente indisturbati nelle case della popolazione di nazionalità musulmana o croata. Questo fatto si spiega con le differenti politiche attuate dal nuovo governo della federazione bosniaca e dal governo della Repubblica Serba di Bosnia, caratterizzata quest'ultima da inerzia ed indifferenza. Il governo centrale bosniaco - a composizione socialdemocratica e civica - favorisce una politica del ritorno molto attiva, come mi hanno confermato anche Jadranka Milicevic ed altri dirigenti del Centro per il ritorno dei profughi di nazionalità serba e musulmana in Bosnia orientale, durante una visita a Gorazde alla fine di giugno. Le garanzie di legge sono dunque diventate realtà nelle zone sotto il controllo delle autorità centrali di Sarajevo, mentre in quelle controllate dal governo di Banja Luka ancora non c'è un ritorno rilevante. Pochissimi sono poi i profughi fuggiti che ritornano dai paesi occidentali, a parte rari casi di persone che hanno perso lo status di rifugiati e non sono riusciti a trasferirsi in Canada o Australia.
Le difficoltà del rientro
Un primo problema di rilievo collegato al ritorno sono le procedure burocratiche molto complicate e lente richieste dalle ambasciate e dagli uffici consolari croati nei paesi di rifugio, specialmente a Belgrado. Un secondo problema che rallenta il ritorno è quello delle denunce contro molti rientrati di essere criminali di guerra, denuncia che fa scattare il procedimento abituale di arresto ed il conseguente processo penale che spesso si conclude con una condanna. E' molto difficile definire il grado di fondatezza delle accuse, ma pare che oltre il 50% si basino su denunce false.
I costi del ritorno sono pagati in gran parte dalle organizzazioni umanitarie internazionali. Il governo croato partecipa alla ricostruzione delle case distrutte della popolazione serba rientrante, specialmente in Slavonia orientale, ma con un finanziamento in percentuale insignificante. La ragione di questo atteggiamento è spiegata con le difficoltà finanziarie in cui si trova tutto il sistema statale. Un ulteriore problema molto grave è legato alla presenza dei profughi croati provenienti dalla Bosnia, e in misura minore anche da Vojvodina e Kosovo, che vivono nelle case dei serbi rientranti. Spesso le autorità tollerano questa occupazione delle case, e così molti profughi ritornati non possono riavere le loro proprietà e vivono in case di familiari o prese in affitto.
L'atteggiamento verso i profughi rientrati
Ci sono infine i problemi politici del contesto ambientale in cui si ritorna. Non sono stati raccolti dati precisi sull'atteggiamento della maggioranza croata verso i profughi rientranti di nazionalità serba. Ma secondo quelli disponibili si può dire che gli atteggiamenti prevalenti siano l'indifferenza, e in misura minore - ma molto più forte nelle zone del ritorno - l'avversione in quanto elemento di disturbo. Le opinioni raccolte su questo punto sono discordanti: Pupovac, durante un colloquio del 12 luglio, mi dice che il problema non sta nell'atteggiamento della popolazione croata che vive nelle zone di ritorno, ma nella passività e nella mancanza di azioni concrete da parte delle autorità statali. Al contrario per il sindaco di Vojnic Branko Eremic - membro del SDP, anch'egli profugo tra il 1995 e il 1997 - i problemi maggiori ai rientranti li creano una parte dei croati residenti nelle zone del ritorno, a loro volta spesso rifugiati da altre terre. Si tratta secondo Eremic di cittadini facilmente manipolati da parte della destra radicale croata, che credono nel HDZ e nel HSP e rifiutano la convivenza. Il futuro però sta solo nella ricostruzione della fiducia interetnica e della sicurezza, condizioni necessarie per il ritorno della vita nelle zone della ex-Krajina (Vjesnik, 6.7).
Un ragionamento simile lo fa anche il presidente del partito popolare serbo (SNS) e sindaco di Donji Lapac, Milan Djukic; per lui la convivenza è l'unica via d'uscita. I serbi hanno imparato la lezione della storia, specie di quella recente, e non c'è più spazio per l'esclusivismo nazionale e per una nuova omogeneizzazione etnica. Ma il problema più serio resta la politica del governo croato verso queste aree: non si fa niente per riattivarne l'economia e la vita sociale. E vittime di questa passività non sono soltanto i serbi, ma anche i cittadini croati del posto. Le autorità ad esempio non vogliono spiegare a questi croati che devono liberare le case serbe. Per via di tutti questi motivi non è possibile dire quanti profughi ci si può aspettare che tornino nel prossimo futuro: forse non tornerà più nessuno, conclude Djukic (sempre da Vjesnik, 6.7).
Vedi anche:
I dati
I dati sui profughi rientrati in Croazia forniti da UNHCR e ODPR (rispettivamente, l'ufficio dell'Alto Commissariato per i Rifugiati e il Dipartimento governativo per i rifugiati e gli sfollati) parlano di circa 125 mila persone in totale. Sulla base di un'indagine compiuta tra i rappresentanti della comunità serba e tra le organizzazioni nongovernative che si occupano dei profughi rientranti o ritornati (Milorad Pupovac, Presidente del Consiglio nazionale serbo di Croazia, Jovica Vejnovic, segretario generale del Consiglio nazionale serbo - SNV e Ljubo Manojlovic, segretario generale del Forum democratico serbo) le cifre riportate sono abbastanza corrispondenti al dato formale, ma vanno prese con riserva: infatti un quarto circa dei profughi - in massima parte cittadini croati di nazionalità serba - torna soltanto per ottenere i documenti croati, vendere la proprietà e partire per altri paesi o sistemarsi nella parte serba della Bosnia ed Erzegovina o talvolta nella stessa Serbia. Dunque, rispetto alle cifre presentate, il ritorno effettivo riguarda il 75% dei casi.
La maggior parte dei rientrati proviene dalla Federazione Jugoslava, soprattutto dalla Serbia. Molto minore invece è il numero di quanti arrivano dalla Bosnia ed Erzegovina, dove i rifugiati possono ancora vivere praticamente indisturbati nelle case della popolazione di nazionalità musulmana o croata. Questo fatto si spiega con le differenti politiche attuate dal nuovo governo della federazione bosniaca e dal governo della Repubblica Serba di Bosnia, caratterizzata quest'ultima da inerzia ed indifferenza. Il governo centrale bosniaco - a composizione socialdemocratica e civica - favorisce una politica del ritorno molto attiva, come mi hanno confermato anche Jadranka Milicevic ed altri dirigenti del Centro per il ritorno dei profughi di nazionalità serba e musulmana in Bosnia orientale, durante una visita a Gorazde alla fine di giugno. Le garanzie di legge sono dunque diventate realtà nelle zone sotto il controllo delle autorità centrali di Sarajevo, mentre in quelle controllate dal governo di Banja Luka ancora non c'è un ritorno rilevante. Pochissimi sono poi i profughi fuggiti che ritornano dai paesi occidentali, a parte rari casi di persone che hanno perso lo status di rifugiati e non sono riusciti a trasferirsi in Canada o Australia.
Le difficoltà del rientro
Un primo problema di rilievo collegato al ritorno sono le procedure burocratiche molto complicate e lente richieste dalle ambasciate e dagli uffici consolari croati nei paesi di rifugio, specialmente a Belgrado. Un secondo problema che rallenta il ritorno è quello delle denunce contro molti rientrati di essere criminali di guerra, denuncia che fa scattare il procedimento abituale di arresto ed il conseguente processo penale che spesso si conclude con una condanna. E' molto difficile definire il grado di fondatezza delle accuse, ma pare che oltre il 50% si basino su denunce false.
I costi del ritorno sono pagati in gran parte dalle organizzazioni umanitarie internazionali. Il governo croato partecipa alla ricostruzione delle case distrutte della popolazione serba rientrante, specialmente in Slavonia orientale, ma con un finanziamento in percentuale insignificante. La ragione di questo atteggiamento è spiegata con le difficoltà finanziarie in cui si trova tutto il sistema statale. Un ulteriore problema molto grave è legato alla presenza dei profughi croati provenienti dalla Bosnia, e in misura minore anche da Vojvodina e Kosovo, che vivono nelle case dei serbi rientranti. Spesso le autorità tollerano questa occupazione delle case, e così molti profughi ritornati non possono riavere le loro proprietà e vivono in case di familiari o prese in affitto.
L'atteggiamento verso i profughi rientrati
Ci sono infine i problemi politici del contesto ambientale in cui si ritorna. Non sono stati raccolti dati precisi sull'atteggiamento della maggioranza croata verso i profughi rientranti di nazionalità serba. Ma secondo quelli disponibili si può dire che gli atteggiamenti prevalenti siano l'indifferenza, e in misura minore - ma molto più forte nelle zone del ritorno - l'avversione in quanto elemento di disturbo. Le opinioni raccolte su questo punto sono discordanti: Pupovac, durante un colloquio del 12 luglio, mi dice che il problema non sta nell'atteggiamento della popolazione croata che vive nelle zone di ritorno, ma nella passività e nella mancanza di azioni concrete da parte delle autorità statali. Al contrario per il sindaco di Vojnic Branko Eremic - membro del SDP, anch'egli profugo tra il 1995 e il 1997 - i problemi maggiori ai rientranti li creano una parte dei croati residenti nelle zone del ritorno, a loro volta spesso rifugiati da altre terre. Si tratta secondo Eremic di cittadini facilmente manipolati da parte della destra radicale croata, che credono nel HDZ e nel HSP e rifiutano la convivenza. Il futuro però sta solo nella ricostruzione della fiducia interetnica e della sicurezza, condizioni necessarie per il ritorno della vita nelle zone della ex-Krajina (Vjesnik, 6.7).
Un ragionamento simile lo fa anche il presidente del partito popolare serbo (SNS) e sindaco di Donji Lapac, Milan Djukic; per lui la convivenza è l'unica via d'uscita. I serbi hanno imparato la lezione della storia, specie di quella recente, e non c'è più spazio per l'esclusivismo nazionale e per una nuova omogeneizzazione etnica. Ma il problema più serio resta la politica del governo croato verso queste aree: non si fa niente per riattivarne l'economia e la vita sociale. E vittime di questa passività non sono soltanto i serbi, ma anche i cittadini croati del posto. Le autorità ad esempio non vogliono spiegare a questi croati che devono liberare le case serbe. Per via di tutti questi motivi non è possibile dire quanti profughi ci si può aspettare che tornino nel prossimo futuro: forse non tornerà più nessuno, conclude Djukic (sempre da Vjesnik, 6.7).
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