“Pedalo e sogno le Brioni, là in direzione ovest, quel piccolo arcipelago delle meraviglie, teatro regale dai tempi augustei fino a quelli titini”. Fabio Fiori in sella alla sua “efficientissima macchina ecologica” prosegue verso Pola
La bicicletta non è solo un’efficientissima macchina ecologica, ma anche un’intramontabile marchingegno fantasmagorico. Perché la bici permette di macinare chilometri senza consumare energie fossili, di dilatare immagini senza far uso di sostanze stupefacenti. Non so se pedalando aumenta il livello di ossitocina nel sangue, ma so che è più facile fantasticare, guardando il cielo schiarire, come qualche minuto fa sulla strada che va da Rovigno a Valle, o le fronde degli ulivi ondeggiare, come adesso sulla strada che da Valle corre sull’altipiano verso Dignano.
Pedalo e sogno le Brioni, là in direzione ovest, quel piccolo arcipelago delle meraviglie, teatro regale dai tempi augustei fino a quelli titini. Isole arabescate d’azzurro, che incantano anche solo guardandole da lontano, nel silenzio musicato dal vento e dal mare che mi regalò tanti anni fa la mia piccola vela. Isole arzigogolate di verde, che ammaliano anche sono immaginandole da qui, in quegli intervalli di silenzio che si aprono tra un’auto e un furgone che mi sfrecciano accanto.
Il sole fa capolino tra cumuli bianchi spinti dal Maestrale. Da Rovigno a Dignano sono solo 25 chilometri, ma la distanza è molto più ampia, almeno in termini d’atmosfere. Perché Dignano è un piccolo paese agricolo lontano dai flussi turistici costieri, perché nel suo centro storico case e palazzi malandati raccontano una storia dolorosa di conflitti e spopolamenti. Qui ci fu un primo esodo strategico negli anni della Prima Guerra Mondiale, poi un secondo degli italiani dopo la Seconda. Anche se da qui se ne andarono meno che altrove e gli istro-veneti sono ancora una minoranza significativa e attiva in termini culturali e politici. “Qui una volta scorrevano più olio e vino che acqua. Dignano era ricca, sotto Venezia era più grande di Pola”, racconta Paolo Rumiz in un diario di un viaggio fatto a piedi trent’anni fa, quando la guerra imperversava nei Balcani e l’Istria, la sua gente, resisteva all’ennesimo delirio etnico.
Pausa in un bar nella piazza della Chiesa di San Biagio. Una Laško ghiacciata e un po’ di noccioline. Alla mia destra l’imponente campanile in forme veneziane, costruito nei primi decenni dell’Ottocento, il più alto d’Istria, con i suoi 60 metri. Dignano “che si pavoneggia di schierarsi con Peroi e Gallesano, quale piccola, ma audace sentinella dell’Adriatico …[con] i tre campanili, schierati, con le lor campane salutano le tartane di Fasana e i battelli di Rovigno che vanno a pesca delle sardelle spiegando alla brezza vele latine”, trascrivo da una monumentale storia novecentesca della città.
La discesa verso Pola attraversa campi dove, malgrado il proliferare di aree artigianali e commerciali, gli ulivi rimangono padroni. Quelli secolari e altri giovani che testimoniano nuove attenzioni agricole, in questa terra rossa e fertile.
La strada porta esattamente nel cuore della Pola romana, a quell’Arena che ne è il simbolo. La luminosità della sua bianca Pietra d’Istria, che si staglia nel ceruleo del cielo di questo pomeriggio settembrino, è testimone di plurimillenaria bellezza. Un’arena che dopo le stagioni gloriose e sanguinose dell’età romana, cadde in abbandono, diventando cava di pietre utili a edificare chiese e palazzi, che rischiò addirittura nel Cinquecento di essere smontata, per trasportarla e riedificarla a Venezia. Almeno così leggo in un ritaglio del giornale “Arena di Pola” del 1988, trovato in rete, dedicato al senatore Gabriele Emo che sventò questo progetto.
Se gli spettacoli dell’Arena hanno un preciso calendario, dalle sue gradinate si può sempre vedere quello dell’Adriatico, le cui acque entrano nella profonda insenatura polesana e arrivano quasi a lambirne le fondamenta. Osservo la sua deità, nel controluce incorniciato da un’arcata. Poi apro Rilke e leggo: “Sarebbe tempo, ora, che dèi uscissero / dalle cose abitate… Sia ancora la vostra alba, o dèi. / Noi ripetiamo. Ma voi siete origine.”
Dèi, voi siete mare e cielo, luce e vento.
PS
Vento di terra di Paolo Rumiz (BEE, 2020) è un diario di viaggio scritto all’inizio degli anni Novanta del Novecento, nel pieno dell’incendio balcanico. “Un viaggio in Istria tanto immediato, agevole, cosa da weekend, quanto insidioso e tutto in salita”, scrive Fulvio Tomizza nella prefazione alla prima edizione. Un’Istria che può vantare un millenario mimetismo al potere politico, “il suo non essere terra di nessuno. Né italiana, né slovena, né croata. Il suo essere ‘nostra’…terra di coloro che la abitano, la coltivano, la vivono”. E, mi permetto io, anche di coloro che la camminano o la pedalano, la remano o la veleggiano.