Il quadro delle controversie riguardanti la problematica dell'integrazione dei Balcani (o del Sud-est Europa) è determinata dal Patto di Stabilità e accessione. Il termine "accessione" indica l'adesione dei paesi coinvolti dal Patto (quindici paesi dell'Europa centrale, orientale e sud-orientale) all'Unione Europea (ma si riferisce anche all'integrazione strategico-militare nelle strutture della NATO).
L'intento essenziale del Patto consiste nell'adattamento giuridico (a più livelli: protezione dei diritti umani ma anche della proprieta' privata), economico (in primo luogo, apertura verso il libero mercato in senso neoliberista), militare, politico e sociale, da parte dei paesi coinvolti, ai criteri dell'Unione Europea. La stabilita' nella regione sottintende la normalizzazione nei rapporti tra gli stati membri del Patto, includendo in modo particolare anche i paesi che durante gli anni Novanta guerreggiavano tra loro. Tale normalizzazione avverrebbe mediante una serie di accordi e cooperazioni bilaterali e multilaterali regionali tra i paesi, in ogni campo della vita politica e sociale.
Il rispetto degli obblighi derivanti dall'appartenenza al Patto rappresenta per i paesi dei Balcani occidentali (paesi dell'ex-Jugoslavia piu' Albania, esclusa la Slovenia) un presupposto necessario per sperare in una futura integrazione europea. Ne deriva una secca alternativa: o accettano la cooperazione con i paesi vicini (anche coloro con i quali hanno avuto scontri violenti e armati) o sono esclusi dall'ambito dell'integrazione europea ed euroatlantica.
Il problema è che nessuno tra essi si vuole identificare come appartenente alla regione balcanica (salvo due eccezioni: Serbia/Montenegro - sebbene i montenegrini indipendentisti definiscono volentieri il Montenegro come un paese mediterraneo - e Macedonia). Gli albanesi del Kosovo, ad esempio, ripetono con insistenza che il Kosovo non appartiene ai Balcani, ma all'Europa. Altri dicono che il Kosovo - o anche l'Albania - è qualcosa di unico e non riducibile a determinazioni geopolitiche. In Croazia domina un sentimento condiviso: la Croazia è un paese mitteleuropeo o mitteleuropeo-mediterraneo, e i Balcani sono oltre la Drina (il fiume che divide la Bosnia dalla Serbia) o finiscono sul confine croato-bosniaco. Una ricerca recentissima dimostra che la maggioranza della popolazione croata rifiuta i popoli viventi ai confini orientali del paese (non soltanto Serbi, ma anche Albanesi, Macedoni, Bulgari...). Se non si tratta (piu') di odio, si tratta senz'altro di sentimenti negativi, collegati spesso a pregiudizi, secondo cui i popoli balcanici sarebbero costituiti da persone pigre, disoneste, sudice... Nonostante il fatto che la popolazione croata non rappresenti un'eccezione riguardo alle emozioni e agli stereotipi negativi nei confronti dei Balcani, sarebbe possibile concludere che essa e' un campione in questo campo.
Ma i sentimenti sono una cosa e gli interessi reali un'altra. Così, la destra radicale, nel novembre dell'anno scorso, è riuscita a raccogliere non piu' di seicento persone per protestare, secondo lo slogan: "no all'integrazione balcanica", contro un convegno del Patto, tenutosi a Zagabria (e al quale partecipava anche il presidente jugoslavo neo-eletto Vojislav Kostunica, che alla vigilia del convegno ha rifiutato di scusarsi per il comportamento del suo Paese durante la guerra).
La marginalita' della contestazione pubblica non significa però che non ci siano controversie molto acute attorno alle modalita' e agli scopi dell'integrazione.
Il problema principale è l'antitesi tra coloro che, da una parte, cercano l'integrazione nel contesto d'una emancipazione dall'etnocentrismo dominante negli anni Novanta e coloro che, dall'altra, approvano l'integrazione come una neccessita' imposta (questi ultimi naturalmente vogliono ridurre al minimo l'intensita' e la profondita' dell'integrazione e concentrarla sul piano economico e commerciale). La posizione "emancipatoria" potrebbe essere rappresentata dall'attuale Presidente della Repubblica Stipe Mesic. Ultimo presidente della Federazione Socialista Jugoslava e uno dei dirigenti principali del governo tudjmaniano (finchè nel 1994 non e' diventato "traditore nazionale", cioe' uno dei critici piu' duri della politica etnocentrista del governo e gia' nel 1995 testimone volontario davanti al Tribunale dell'Aja), nel 1994 ha dichiarato nel discorso alla Conferenza socialdemocratica regionale a Zagabria (a cui parteciparono, tra gli altri, anche i partiti divenuti ora elementi delle coalizioni governative in cinque stati ex-jugoslavi): "la Jugoslavia non può soppravivere perchè Milosevic non vuole nient'altro che la Grande Serbia e Tudjman risponde con un progetto di Grande Croazia. Ma e' un peccato che, per questo, la Federazione Jugoslava non sia in grado di ristrutturarsi democraticamente e di diventare un elemento della federazione europea futura". Mesic, come Capo del Stato, propone ora l'integrazione, senza dimenticare che è impossibile ricostituire ciò che e' stato separato in modo sanguinoso e tramite enormi crudelta'. Il presupposto necessario per una normalizzazione regionale e per la costruzione d'un buon vicinato con diverse forme di mutua cooperazione è doppio: da un lato e' necessario identificare e individuare la responsabilita' per i crimini di guerra e processare i colpevoli; dall'altro, sarebbe necessario scusarsi per quello che e' avvenuto durante gli anni Novanta (come ha dichiararato l'anno scorso nell'intervista alla radio indipendente Novi Sad 21 "sarebbe ottima cosa che tutti chiedessero scusa a tutti, perchè ogni parte ha un certo livello di responsabilita'"). Mesic personalmente ha chiesto perdono, l'anno scorso a Sarajevo, per i crimini commessi in Bosnia ed Erzegovina da parte croata. La scusa da parte montenegrina e' arrivata a Dubrovnik da parte del presidente Milo Djukanovic. Una semi-scusa da parte serba c'è stata quest'anno a Zagabria da parte del Ministro degli Esteri jugoslavo Goran Svilanovic (presidente di un partito partecipante alla gia' menzionata conferenza dal 1994).
Dunque, una risposta nel complesso affermativa alla normalizzazione e alla cooperazione universale che integri la regione in senso economico e umano, ma non in senso politico. Questo non significa che non ci siano i nostalgici jugoslavi. Ma anche questi ultimi hanno capito che l'integrazione politica non è - forse, oggi - realmente possibile. Tra essi lo scrittore Slobodan Snajder (nel periodo tudjmaniano praticamente in esilio in Germania, ora direttore del Teatro alternativo a Zagabria), che, quest'anno, durante una conferenza a Kragujevac (Serbia), ha detto che sebbene la Jugoslavia rimanga uno spazio culturale unitario, e lui si senta uno scrittore jugoslavo, non sarebbe realistico oggi pensare a ricostruire un stato comune.
D'altro canto, i rappresentanti dell'integrazione meramente economica e commerciale nascondono sotto il tappeto la storia recente, senza sentirsi colpevoli e senza insistere (per ragioni pragmatiche) sulla responsabilita' degli ex-nemici. Questa posizione è rappresentata in Croazia specialmente da alcuni uomini d'affari provenienti dall'HDZ, appartenenti all'ala "tecnocratica" del partito. Tra loro, Andjelko Herjavec, Presidente dell'industria confezionaria "Varteks" (ex-deputato parlamentare dell'HDZ e gia' Presidente della Federazione calcio croata, scomparso quest'estate in un incidente d'auto), ha guidato con successo un'attività commerciale a Belgrado. Altro nome noto e' il Presidente della Camera commerciale croata Nadan Vidosevic (gia' ministro tudjmaniano dell'economia e del commercio), che ha avuto successi di rilievo nel campo della ricostruzione, dello scambio commerciale e della cooperazione industriale. Costoro non discutono del passato: in questione sono soltanto gli interessi delle economie concorrenti nei mercati balcanici, orientati ad una mutua cooperazione per sopravvivere.
Proprio da questa posizione arrivano alcuni ostacoli ad un'integrazione che vada oltre il livello commerciale e significhi apertura dei confini.
La posizione pragmatica (o "tecnocratica"), in passato politicamente collegata ai rappresentanti del commercio illegale interetnico e interstatale (e si deve sapere che durante la guerra c'era un scambio commerciale tra tutte le parti belligeranti, ad esempio scambio di petrolio per munizioni tra Croati e Serbi, specialmente in Bosnia) ha perso i suoi partner naturali (forze politiche e finanziarie definite dagli ex-poteri nazionalisti). Così, se da una parte procede con gli accordi commerciali, allo stesso tempo produce (o cerca di produrre) diversi ostacoli per una piu' profonda cooperazione. Questo vale specialmente per la parte croata. Su questa posizione si attestano anche molti dipendenti dei livelli bassi dell'apparato statale. Questi ultimi creano complicazioni burocratiche, ad esempio a livello consolare, riguardo alla cooperazione culturale, sociale, e così via.
La seconda fonte di ostacolo è negli ambienti governativi. Come e' noto, le coalizioni governative sono molto eterogenee (questo vale in primo luogo per le composizioni dei governi croato e serbo), includono elementi di matrice nazionalista e non si possono definire emancipate dal etnocentrismo (ad esempio, l'HSLS in Croazia, o l'DSS in Serbia). A parole, tutti si proclamano a favore della cooperazione e dell'integrazione. Ma nella pratica alcuni funzionari cercano di rallentare il ritmo dell'integrazione: fare soltanto ciò che e' necessario per soddisfare le domande delle potenze internazionali e ciò che è utile dal punto di vista pragmatico è la loro prassi. Questa ritrosia alla realizzazione dell'integrazione prevista dal Patto, è stata per il Presidente Mesic una spinta per la critica durissima rivolta all'amministrazione croata (ma senza nominare le istituzioni e le personalita' che ritiene come responsabili) durante la visita del 1 settembre a Gradacac, in occasione dell'incontro con i membri della Presidenza bosniaca Beriz Belkic e Zivko Radisic: "la cooperazione bilaterale croato-bosniaca si potrebbe definire parzialmente soddisfacente, ma una parte delle strutture amministrative non ha fatto quasi niente per realizzare gli impegni provenienti dagli accordi stabiliti sulla base del Patto, in direzione dell'integrazione europea". Secondo Mesic, di questo sono responsabili anche le strutture bosniache.
Si potrebbe concludere che ostacoli all'integrazione si trovano ovunque, non soltanto in Croazia o in Bosnia. Da parte croata non c'e un entusiasmo per l'integrazione. Se questo significasse integrazione diretta nelle strutture economiche e politiche dell'Europa occidentale, la maggioranza dei Croati lo farebbe con grande gioia. Ma resta la neccessita' di rendersi conto che prima di tutto va presa in considerazione l'integrazione con i vicini d'Oriente. La minoranza che vuole la piena normalizzazione e l'integrazione piu' profonda resta a margine dell'opinione pubblica, così come, d'altra parte, la minoranza di destra radicale, contraria a ogni tipo di integrazione sovranazionale.
Il quadro delle controversie riguardanti la problematica dell'integrazione dei Balcani (o del Sud-est Europa) è determinata dal Patto di Stabilità e accessione. Il termine "accessione" indica l'adesione dei paesi coinvolti dal Patto (quindici paesi dell'Europa centrale, orientale e sud-orientale) all'Unione Europea (ma si riferisce anche all'integrazione strategico-militare nelle strutture della NATO).
L'intento essenziale del Patto consiste nell'adattamento giuridico (a più livelli: protezione dei diritti umani ma anche della proprieta' privata), economico (in primo luogo, apertura verso il libero mercato in senso neoliberista), militare, politico e sociale, da parte dei paesi coinvolti, ai criteri dell'Unione Europea. La stabilita' nella regione sottintende la normalizzazione nei rapporti tra gli stati membri del Patto, includendo in modo particolare anche i paesi che durante gli anni Novanta guerreggiavano tra loro. Tale normalizzazione avverrebbe mediante una serie di accordi e cooperazioni bilaterali e multilaterali regionali tra i paesi, in ogni campo della vita politica e sociale.
Il rispetto degli obblighi derivanti dall'appartenenza al Patto rappresenta per i paesi dei Balcani occidentali (paesi dell'ex-Jugoslavia piu' Albania, esclusa la Slovenia) un presupposto necessario per sperare in una futura integrazione europea. Ne deriva una secca alternativa: o accettano la cooperazione con i paesi vicini (anche coloro con i quali hanno avuto scontri violenti e armati) o sono esclusi dall'ambito dell'integrazione europea ed euroatlantica.
Il problema è che nessuno tra essi si vuole identificare come appartenente alla regione balcanica (salvo due eccezioni: Serbia/Montenegro - sebbene i montenegrini indipendentisti definiscono volentieri il Montenegro come un paese mediterraneo - e Macedonia). Gli albanesi del Kosovo, ad esempio, ripetono con insistenza che il Kosovo non appartiene ai Balcani, ma all'Europa. Altri dicono che il Kosovo - o anche l'Albania - è qualcosa di unico e non riducibile a determinazioni geopolitiche. In Croazia domina un sentimento condiviso: la Croazia è un paese mitteleuropeo o mitteleuropeo-mediterraneo, e i Balcani sono oltre la Drina (il fiume che divide la Bosnia dalla Serbia) o finiscono sul confine croato-bosniaco. Una ricerca recentissima dimostra che la maggioranza della popolazione croata rifiuta i popoli viventi ai confini orientali del paese (non soltanto Serbi, ma anche Albanesi, Macedoni, Bulgari...). Se non si tratta (piu') di odio, si tratta senz'altro di sentimenti negativi, collegati spesso a pregiudizi, secondo cui i popoli balcanici sarebbero costituiti da persone pigre, disoneste, sudice... Nonostante il fatto che la popolazione croata non rappresenti un'eccezione riguardo alle emozioni e agli stereotipi negativi nei confronti dei Balcani, sarebbe possibile concludere che essa e' un campione in questo campo.
Ma i sentimenti sono una cosa e gli interessi reali un'altra. Così, la destra radicale, nel novembre dell'anno scorso, è riuscita a raccogliere non piu' di seicento persone per protestare, secondo lo slogan: "no all'integrazione balcanica", contro un convegno del Patto, tenutosi a Zagabria (e al quale partecipava anche il presidente jugoslavo neo-eletto Vojislav Kostunica, che alla vigilia del convegno ha rifiutato di scusarsi per il comportamento del suo Paese durante la guerra).
La marginalita' della contestazione pubblica non significa però che non ci siano controversie molto acute attorno alle modalita' e agli scopi dell'integrazione.
Il problema principale è l'antitesi tra coloro che, da una parte, cercano l'integrazione nel contesto d'una emancipazione dall'etnocentrismo dominante negli anni Novanta e coloro che, dall'altra, approvano l'integrazione come una neccessita' imposta (questi ultimi naturalmente vogliono ridurre al minimo l'intensita' e la profondita' dell'integrazione e concentrarla sul piano economico e commerciale). La posizione "emancipatoria" potrebbe essere rappresentata dall'attuale Presidente della Repubblica Stipe Mesic. Ultimo presidente della Federazione Socialista Jugoslava e uno dei dirigenti principali del governo tudjmaniano (finchè nel 1994 non e' diventato "traditore nazionale", cioe' uno dei critici piu' duri della politica etnocentrista del governo e gia' nel 1995 testimone volontario davanti al Tribunale dell'Aja), nel 1994 ha dichiarato nel discorso alla Conferenza socialdemocratica regionale a Zagabria (a cui parteciparono, tra gli altri, anche i partiti divenuti ora elementi delle coalizioni governative in cinque stati ex-jugoslavi): "la Jugoslavia non può soppravivere perchè Milosevic non vuole nient'altro che la Grande Serbia e Tudjman risponde con un progetto di Grande Croazia. Ma e' un peccato che, per questo, la Federazione Jugoslava non sia in grado di ristrutturarsi democraticamente e di diventare un elemento della federazione europea futura". Mesic, come Capo del Stato, propone ora l'integrazione, senza dimenticare che è impossibile ricostituire ciò che e' stato separato in modo sanguinoso e tramite enormi crudelta'. Il presupposto necessario per una normalizzazione regionale e per la costruzione d'un buon vicinato con diverse forme di mutua cooperazione è doppio: da un lato e' necessario identificare e individuare la responsabilita' per i crimini di guerra e processare i colpevoli; dall'altro, sarebbe necessario scusarsi per quello che e' avvenuto durante gli anni Novanta (come ha dichiararato l'anno scorso nell'intervista alla radio indipendente Novi Sad 21 "sarebbe ottima cosa che tutti chiedessero scusa a tutti, perchè ogni parte ha un certo livello di responsabilita'"). Mesic personalmente ha chiesto perdono, l'anno scorso a Sarajevo, per i crimini commessi in Bosnia ed Erzegovina da parte croata. La scusa da parte montenegrina e' arrivata a Dubrovnik da parte del presidente Milo Djukanovic. Una semi-scusa da parte serba c'è stata quest'anno a Zagabria da parte del Ministro degli Esteri jugoslavo Goran Svilanovic (presidente di un partito partecipante alla gia' menzionata conferenza dal 1994).
Dunque, una risposta nel complesso affermativa alla normalizzazione e alla cooperazione universale che integri la regione in senso economico e umano, ma non in senso politico. Questo non significa che non ci siano i nostalgici jugoslavi. Ma anche questi ultimi hanno capito che l'integrazione politica non è - forse, oggi - realmente possibile. Tra essi lo scrittore Slobodan Snajder (nel periodo tudjmaniano praticamente in esilio in Germania, ora direttore del Teatro alternativo a Zagabria), che, quest'anno, durante una conferenza a Kragujevac (Serbia), ha detto che sebbene la Jugoslavia rimanga uno spazio culturale unitario, e lui si senta uno scrittore jugoslavo, non sarebbe realistico oggi pensare a ricostruire un stato comune.
D'altro canto, i rappresentanti dell'integrazione meramente economica e commerciale nascondono sotto il tappeto la storia recente, senza sentirsi colpevoli e senza insistere (per ragioni pragmatiche) sulla responsabilita' degli ex-nemici. Questa posizione è rappresentata in Croazia specialmente da alcuni uomini d'affari provenienti dall'HDZ, appartenenti all'ala "tecnocratica" del partito. Tra loro, Andjelko Herjavec, Presidente dell'industria confezionaria "Varteks" (ex-deputato parlamentare dell'HDZ e gia' Presidente della Federazione calcio croata, scomparso quest'estate in un incidente d'auto), ha guidato con successo un'attività commerciale a Belgrado. Altro nome noto e' il Presidente della Camera commerciale croata Nadan Vidosevic (gia' ministro tudjmaniano dell'economia e del commercio), che ha avuto successi di rilievo nel campo della ricostruzione, dello scambio commerciale e della cooperazione industriale. Costoro non discutono del passato: in questione sono soltanto gli interessi delle economie concorrenti nei mercati balcanici, orientati ad una mutua cooperazione per sopravvivere.
Proprio da questa posizione arrivano alcuni ostacoli ad un'integrazione che vada oltre il livello commerciale e significhi apertura dei confini.
La posizione pragmatica (o "tecnocratica"), in passato politicamente collegata ai rappresentanti del commercio illegale interetnico e interstatale (e si deve sapere che durante la guerra c'era un scambio commerciale tra tutte le parti belligeranti, ad esempio scambio di petrolio per munizioni tra Croati e Serbi, specialmente in Bosnia) ha perso i suoi partner naturali (forze politiche e finanziarie definite dagli ex-poteri nazionalisti). Così, se da una parte procede con gli accordi commerciali, allo stesso tempo produce (o cerca di produrre) diversi ostacoli per una piu' profonda cooperazione. Questo vale specialmente per la parte croata. Su questa posizione si attestano anche molti dipendenti dei livelli bassi dell'apparato statale. Questi ultimi creano complicazioni burocratiche, ad esempio a livello consolare, riguardo alla cooperazione culturale, sociale, e così via.
La seconda fonte di ostacolo è negli ambienti governativi. Come e' noto, le coalizioni governative sono molto eterogenee (questo vale in primo luogo per le composizioni dei governi croato e serbo), includono elementi di matrice nazionalista e non si possono definire emancipate dal etnocentrismo (ad esempio, l'HSLS in Croazia, o l'DSS in Serbia). A parole, tutti si proclamano a favore della cooperazione e dell'integrazione. Ma nella pratica alcuni funzionari cercano di rallentare il ritmo dell'integrazione: fare soltanto ciò che e' necessario per soddisfare le domande delle potenze internazionali e ciò che è utile dal punto di vista pragmatico è la loro prassi. Questa ritrosia alla realizzazione dell'integrazione prevista dal Patto, è stata per il Presidente Mesic una spinta per la critica durissima rivolta all'amministrazione croata (ma senza nominare le istituzioni e le personalita' che ritiene come responsabili) durante la visita del 1 settembre a Gradacac, in occasione dell'incontro con i membri della Presidenza bosniaca Beriz Belkic e Zivko Radisic: "la cooperazione bilaterale croato-bosniaca si potrebbe definire parzialmente soddisfacente, ma una parte delle strutture amministrative non ha fatto quasi niente per realizzare gli impegni provenienti dagli accordi stabiliti sulla base del Patto, in direzione dell'integrazione europea". Secondo Mesic, di questo sono responsabili anche le strutture bosniache.
Si potrebbe concludere che ostacoli all'integrazione si trovano ovunque, non soltanto in Croazia o in Bosnia. Da parte croata non c'e un entusiasmo per l'integrazione. Se questo significasse integrazione diretta nelle strutture economiche e politiche dell'Europa occidentale, la maggioranza dei Croati lo farebbe con grande gioia. Ma resta la neccessita' di rendersi conto che prima di tutto va presa in considerazione l'integrazione con i vicini d'Oriente. La minoranza che vuole la piena normalizzazione e l'integrazione piu' profonda resta a margine dell'opinione pubblica, così come, d'altra parte, la minoranza di destra radicale, contraria a ogni tipo di integrazione sovranazionale.