Il grande scrittore Luis Sepúlveda è morto il 16 aprile nell'ospedale di Oviedo in Spagna a causa del Covid-19. Nel suo libro "Le rose di Atacama" ha dedicato un intenso racconto a Lussinpiccolo, a cui era molto legato. Lo pubblichiamo in sua memoria
Per gentile concessione della casa editrice Guanda
“L’isola perduta” di Luis Sepúlveda, in Le rose di Atacama (© Guanda, Milano 2016)
Si chiama Lussinpiccolo e vista dall'alto sembra una macchia ocra nel mare Adriatico, davanti alla costa di un paese che un tempo si chiamava Jugoslavia. Ci capitai una volta senza grandi progetti né scadenze, e in una vecchia casa di Artatore scrissi a mano quello che sarebbe diventato il mio primo romanzo.
Ovunque fiorivano susini, oleandri e persone. Fioriva per esempio Olga, una bella croata che si divideva tra le faccende della sua pensione e l'amore per la voce straziata di Camarón de la Isla. Fioriva Stan, uno sloveno che ogni sera accendeva il barbecue, stappava qualche bottiglia di slivoviz e invitava vicini e passanti a godere l'ospitalità della sua terrazza. Fioriva Gojko, un montenegrino che forniva calamari e pesce per la festa, e Vlado, un macedone che cantava arie incomprensibili, ma non per questo meno belle.
Con i suoi racconti ben elaborati fioriva Levinger, il farmacista ebreo bosniaco, ex assistente sanitario dei partigiani antifascisti. A volte Panto, un serbo espulso dalla Marina, suonava la fisarmonica e tutti cantavamo, e alla seconda bottiglia di slivoviz ci sentivamo fratelli nell'affetto dei diminutivi: Olgica, Stanica, Gojkica, Vladica, Pantica. Ci intendevamo grazie a un minestrone babelico d'italiano, tedesco, spagnolo, francese e serbocroato.
«Quel che conta è capirsi e noi ci capiamo» mi dicevano. «In Jugoslavia ci capiamo» ripetevano. Živili, salud, prosit, salute, santé. Lussinpiccolo è stata per vari anni il mio paradiso segreto, finché non è successo qualcosa, qualcosa che già si delineava all'orizzonte e che nessuno dei miei amici era capace di spiegare, ma che si avvertiva nel cambiamento di umore o nel rifiuto al momento di parlare della storia del paese.
Quando la bestialità del nazionalismo serbo ha fatto uscire dai musei tutta la cianfrusaglia cetnica e la bestialità del nazionalismo croato si è vestita da ustascia, l'isola non è rimasta estranea al conflitto.
Olga ha chiuso le porte del suo cuore al flamenco, e quelle della sua pensione a chiunque non fosse croato. Panto una mattina si è messo a marciare da solo per le strade di Artatore, trascinandosi dietro una bandiera serba e un vecchio odio misto ad alcol. L'allegro analfabeta che suonava la fisarmonica ripeteva il rozzo discorso di tutti i nazionalisti e se la prendeva in particolare con l'ebreo Levinger accusandolo di essere, in quanto bosniaco, un fondamentalista islamico. Stan se ne è andato a Lubiana e della sua bella casa sull'isola gli restano solo alcune foto mutilate dalle forbici del rancore. Anche Gojko e Vlado hanno lasciato Lussinpiccolo, spaventati da Panto, che voleva a ogni costo metterli in riga nella sua triste parata in omaggio a una grande Serbia, e da Olga, che vedeva in loro un pericolo per la sua grande Croazia cattolica.
Levinger si è trasferito a Sarajevo poco prima dell'assedio serbo. Da lì mi ha scritto una lettera dolente: «Ci sono mancate almeno due generazioni per liberarci dal cancro nazionalista, che ha un solo sintomo: l'odio».
Ogni volta che vedo la macchia di Lussinpiccolo su una cartina, so che l'isola è ancora lì, nell'Adriatico, ma so anche che l'ho persa per sempre. Cosa è successo? Conosco la storia dei Balcani, ma non riesco a capire il problema odierno, e sono sicuro che non ci riesce neppure la maggior parte dei serbi, dei croati, dei montenegrini, dei kosovari, degli sloveni, dei bosniaci e dei macedoni, perché non hanno conosciuto altro che l'efficace manipolazione della Storia ufficiale, quella scritta dai vincitori.
Forse, come dice Levinger nella sua lettera, le due generazioni che sono mancate avrebbero osato guardare in faccia la loro storia tormentata, perché l'idea sempre fraterna della giustizia cedesse il passo all'unica transizione possibile, quella che soffoca gli odi e impone la ragione.
Mi fa male quell'isola perduta, e mi conferma che i popoli che non conoscono a fondo la loro storia cadono facilmente in mano a imbroglioni e falsi profeti, e tornano a commettere gli stessi errori.
Per approfondire
Luis Sepúlveda, scrittore cileno naturalizzato francese, è nato a Ovalle in Cile il 4 ottobre 1949. Nella sua vita è stato giornalista, regista, sceneggiatore, attivista a difesa dei diritti umani e dell’ambiente, oltre che grande scrittore. Il suo primo romanzo “Il vecchio che leggeva romanzi d’amore” è uscito nel 1989 quando è tornato in Cile da dove era stato espulso nel 1977 dopo due anni di carcere sotto il regime di Pinochet. Da allora ha pubblicato quasi 40 libri. E’ morto lo scorso 16 aprile in Spagna, dove viveva dal 1996.
Si veda la scheda del libro Le rose di Atacama (Guanda, Milano 2016, pp. 176) sul sito della casa editrice