La corruzione sistematica nel mondo dei media, la sparizione di un giornalismo al servizio dei cittadini. Secondo la professoressa Sandra Bašić Hrvatin serve un cambiamento. Intervista raccolta da H-Alter, nostro media partner del progetto Safety Net for European Journalists
(Articolo originariamente pubblicato da H-Alter il 25 novembre 2014, titoilo orginale: Mainstream mediji su eksces )
E' possibile avere dei media radicalmente diversi dagli attuali, realmente impegnati nell'interesse generale della comunità? Sandra Bašić Hrvatin ha passato buona parte della sua carriera cercando di convincere gli studenti e i cittadini di una risposta affermativa a questa domanda. Oltre ad una solida carriera accademica, professoressa alla Facoltà di Studi Umanistici di Capodistria, Sandra Bašić Hrvatin è stata anche presidente del Consiglio sloveno per i media elettronici nonché consulente del direttore della Radiotelevisione pubblica slovena. In più, ha fornito la sua consulenza professionale all'Unione europea in merito alla formulazione delle leggi sui media recentemente adottate in Serbia. Sono inoltre preziosi i suoi contributi per iniziative di attivismo civico in Slovenia. In quest'intervista rilasciata ad H-Alter spiega perché sia necessario un radicale cambiamento dei sistemi mediatici, nel contesto locale e globale.
È stato recentemente pubblicato lo studio Značaj medijskog integriteta (L'importanza dell'integrità mediatica) sulla condizione dei media in cinque paesi del Sud-Est Europa, tra i quali la Croazia. Lei ha contribuito personalmente alla stesura di questa pubblicazione. Qual è la situazione dei media nella regione?
La ricerca affronta la problematica della corruzione e delle prassi corruttive nelle quali sono coinvolti i media. Dall’analisi è emerso che in tutti questi paesi i media si assomigliano, ovvero che tutti i cinque sistemi mediatici sono appesantiti dagli stessi problemi e che la questione di cui parliamo è seria in misura tale da non poter essere limitata ai confini nazionali.
La corruzione sistematica, compromette la democrazia e i media in quanto li fa diventare parte del problema anziché la soluzione. Inoltre la problematica di cui si parla nel libro è comune a tutti i sistemi mediatici: nonostante l’”Occidente” sostenga da anni che questo problema sia limitato all’”Oriente”, è evidente che la globalizzazione – qualunque cosa vogliamo che sia - ha globalizzato anche i problemi. L’unica cosa ancora esistente a livello locale o nazionale sono le prassi di resistenza contro queste politiche. Il messaggio principale del testo, che ho scritto insieme alla collega Brankica Petković, è che tutti i media che non operano nell’interesse pubblico sono corrotti. In tale contesto è nata la nozione di “integrità mediatica”.
Questo libro rappresenta il tentativo di mettere in luce gli ostacoli frapposti allo sviluppo democratico dei sistemi mediatici nei paesi del Sud-Est Europa attraverso una mappatura dei modelli di rapporti e prassi corruttive riguardanti lo sviluppo delle politiche mediatiche, la proprietà dei media nonché il loro finanziamento. Quali sono i maggiori ostacoli?
Gli ostacoli sono in qualche modo iscritti nel dna dell’operato mediatico. Negli ultimi due decenni siamo stati testimoni di politiche relative ai media che sistematicamente limitano il diritto delle persone ad accedere alle informazioni, privatizzano l’interesse pubblico, distruggono i beni pubblici nell’ambito della comunicazione e trasformano i media nella mano visibile del capitale. Serge Halimi nel suo libro “I nuovi cani da guardia!” descrive il legame stretto tra politica e media come una relazione incestuosa, da concepirsi non come una metafora bensì come un fatto reale.
I media che dovrebbero monitorare i centri di potere politici e/o economici ne sono diventati parte integrante. I proprietari dei media usano la loro proprietà (i media) per ottenere diversi favori politici ed economici nonché per promuovere la protezione dei loro interessi personali. E' ingenuo aspettarsi che siano proprio i media ad esprimersi pubblicamente sul funzionamento dell’industria mediatica. Di questo tema i media non vogliono parlare.
La rinomata giornalista Nataša Škaričić ha recentemente annunciato il suo ritiro dal giornalismo perché, tra l’altro, i media mainstream non la vogliono assumere. I suoi problemi sono iniziati quando dalle pagine di Slobodna Dalmacija, di proprietà dell'EPH, ha cominciato ad avvertire dell’evidente nesso corruttivo tra editori e politica. Da allora rimane espulsa dai media mainstream e costretta ai margini dei circuiti mediatici. È uno degli esempi paradigmatici che dimostra come funzionano i media in questa regione, ma anche altrove?
Non tutti quelli che lavorano nei media sono giornalisti o giornaliste, come lo è Nataša Škaričić. I giornalisti stanno abbandonando il giornalismo proprio perché i media odierni non hanno bisogno di loro. Chi ancora crede nel giornalismo si scontra con l'aumento della difficoltà a pubblicare testi di grande importanza per l'opinione pubblica. Quelle poche e importanti storie giornalistiche che finiscono pubblicate vengono sommerse da trivialità, banalità e opinioni di seconda mano.
I media stanno diventando sempre più una piattaforma dove pubblicare opinioni e critiche, e sempre meno uno spazio aperto all’analisi e ai temi importanti. Rupert Murdoch lo ha detto chiaramente: i fatti devono essere dimostrati, le opinioni non sono vincolanti. È questo vale sia per i proprietari dei media sia per gli editori. Quello che mi preoccupa è l’indifferenza della sfera accademica, soprattutto di quella sua parte che si occupa della formazione dei giornalisti, ma anche la mancata solidarietà nella comunità giornalistica.
Quello che oggi chiamiamo giornalismo è diventato una sorta di moderno sistema di caste, in cima al quale sta un piccolo gruppo di scrittori ben pagati, mentre tutti gli altri lavorano in condizioni di precariato, privati di qualsiasi protezione. Aspettarsi da loro che lavorino nell’interesse pubblico è a dir poco ingenuo.
Lei ha recentemente dichiarato ad una tavola rotonda che il problema non sta tanto nei proprietari dei media quanto nel sistema che riproduce i media esistenti. “Nessun cambiamento cosmetico può aiutare. Bisogna riflettere sulla natura dell’esistente sistema economico-politico”, ha evidenziato. Potrebbe spiegarlo meglio?
Già da tempo si parla della necessità di favorire una maggiore autoregolazione dei media e del giornalismo che, conseguentemente, dovrebbe portare a più alti standard professionali. Pare che l’industria mediatica sia l’unica industria nella quale uno dei fondamentali diritti umani dipende dalla discrezionalità dei proprietari: si immagini cosa accadrebbe se l’industria farmaceutica si basasse sull’autoregolazione e si occupasse della promozione della salute.
Le discussioni riguardo alla necessità di cambiare le leggi allo scopo di proteggere l’interesse pubblico nell’ambito dei media non sono soltanto ingenue ma anche pericolose. La cornice legislativa che abbiamo attualmente è tale per giovare al regime delle relazioni economiche dominanti. L’economia non viene regolata dal sistema giuridico, al contrario, costringe la cornice legislativa ad adeguarsi ai suoi bisogni. Voltaire ha scritto da qualche parte che se Dio creò l’uomo a sua immagine, l’uomo gli rese pan per focaccia.
Chris Hedges, intellettuale e giornalista statunitense, vincitore del premio Pulitzer, spesso rimarca che, nel contesto politico e mediatico statunitense, ovvero nel capitalismo postdemocratico, le corporazioni hanno realizzato – e vinto - una sorta di attacco offensivo, così che oggi i media commerciali effettivamente lavorano nell’interesse delle élites, e non dei cittadini. Lei è d’accordo con questa constatazione? Pensa che essa valga anche a livello globale, almeno per quanto riguarda i media?
Certamente. L’unica cosa che non capisco è il termine capitalismo postdemocratico. Come se possa esistere un capitalismo democratico. Per me la democrazia è un verbo, non un sostantivo, ancora meno un aggettivo. Penso che oggi siamo nella situazione di dover scegliere tra democrazia e capitalismo. Se scegliamo la democrazia, è indispensabile pensare ad un sistema economico diverso.
Purtroppo, i media hanno accettato la retorica che equipara democrazia e capitalismo, come se si trattasse di un dogma, di qualcosa che sta al di fuori del pensiero razionale. Così si ripete continuamente: “Dobbiamo comportarci in linea col mercato”, “Dobbiamo essere concorrenziali”, “Dobbiamo vivere secondo le proprie possibilità”, “Dobbiamo saldare i debiti”, “Dobbiamo tagliare il settore pubblico”. In tutti questi servizi giornalistici mi aspetto un’unica domanda, che è la premessa di qualsiasi lavoro giornalistico serio: “Perché?”
La situazione in Croazia è tale che è l’Agenzia per i media elettronici che mantiene i media commerciali in vita. Secondo alcune stime, il 40 per cento dei media locali scomparirebbe senza l’aiuto dal Fondo finanziato dagli abbonamenti all’HRT (Televisione pubblica croata), quindi dai contribuenti. Dall’altra parte, lo stato ha concesso ai quotidiani commerciali, quasi incondizionatamente, un’importante agevolazione fiscale con la giustificazione di voler alleviare la situazione difficile in cui si sono trovati a causa della crisi. Pare che lo stato si assuma l’obbligo di mantenere in vita i media che, in generale, non si impegnano nell’interesse pubblico né rispettano i diritti dei propri giornalisti, o lo fanno in misura insignificante. Qual è la sua opinione riguardo a tali prassi?
Invece di preoccuparsi dei diritti dei propri cittadini, lo stato si preoccupa di come mantenere in vita i media. Ad ogni costo. Nella maggior parte dei casi questo aiuto statale va direttamente a beneficio dei proprietari. Non ho ancora visto un’analisi seria in grado di dimostrare in che misura l’aiuto statale ai media ha contribuito al pluralismo mediatico, all’impiego dei giornalisti e al miglioramento del loro status sociale ed economico.
L’industria mediatica è una delle industrie più sovvenzionate. Viviamo nel mondo in cui i proprietari e i loro interessi vengono sovvenzionati con denaro pubblico. È curioso che coloro che sostengono che non abbiamo altra scelta che vivere della grazia dell’economia del capitalismo mercantile, sono gli stessi che accettano tranquillamente il denaro pubblico. Nell’epoca attuale, i ricchi vivono nel comunismo mente il capitalismo rimane riservato solo ai poveri.
Lei è molto impegnata nel sostegno delle community e dei media no profit, e inoltre ha lavorato sui modelli delle cooperative giornalistiche e mediatiche. Quali sono le sue proposte? Lo stato, ovvero la politica, potrebbe avere un ruolo in questi modelli?
Ho cercato di convincere i media e i giornalisti in Slovenia che la cooperativa mediatica può essere un modo per salvare il giornalismo. Durante il processo della privatizzazione dei media in Slovenia, i giornalisti, o meglio tutti gli impiegati, sono diventati proprietari maggioritari delle singole aziende. Questa proprietà, però, non è durata molto poiché i giornalisti hanno cominciato a vendere le proprie azioni quando, a causa di ragioni politiche, le quote hanno raggiunto un prezzo irrealisticamente alto.
In tali circostanze, alcuni giornalisti hanno deciso di guadagnare. Sfortunatamente, media e giornalisti hanno perso il contatto con la gente già da molto tempo. Seguono il pensiero della élite politica ed economica, senza avere alcuna idea di che cosa pensino o vogliano i cittadini. Lo stato non dovrebbe più sovvenzionare i media bensì il lavoro giornalistico. Esiste qualche tentativo di finanziare certi progetti giornalistici con denaro pubblico. Il media nel quale lei lavora è uno di questi (H-Alter, ndr).
Esistono inoltre iniziative giornalistiche finanziate con donazioni esterne, il cui scopo è lanciare determinati temi sistematicamente ignorati dai media mainstream. Tuttavia, questo non basta. Il modello economico di base secondo il quale funziona l’intera industria mediatica a livello globale semplicemente non permette la stabilità di tali progetti. Alla fine i pesci grandi si mangiano sempre quelli piccoli.
Dall’altra parte, abbiamo ancora i media pubblici, l’ultimo bene pubblico nell’ambito della comunicazione, ma abbiamo lasciato che a controllarli fossero i rappresentanti della "quasi società civile". È indispensabile restituire ai cittadini il controllo diretto dei media pubblici. Al consiglio dei programmi televisivi, ad esempio, vengono nominati i proponenti “autorizzati” e varie associazioni competenti per le nomine dei candidati. Io, invece, sarei per la nomina diretta di individui concreti con competenze concrete.
È possibile che questi modelli diventino una vera alternativa, per quanto riguarda l’influenza al mainstream mediatico esistente, invece di rimanere solo un “eccesso” marginale, come nella situazione attuale?
Per me il mainstream è un “eccesso”, un sistema che semplicemente non sarebbe dovuto esistere. Anche in questo caso dobbiamo fare quello che è la premessa di qualsiasi pensiero critico: uscire dalla cornice esistente. Forse i media che abbiamo sono proprio quelli che meritiamo. Non riesco ad accettare l’ipotesi che non si possa cambiare nulla. È nociva per la democrazia. È possibile cambiare le cose. È doveroso cambiare le cose.
Riguardo ai diritti dei giornalisti, qual è la sua opinione in merito a paesi come Slovenia, Croazia o Serbia?
I diritti dei giornalisti? Come nella Fattoria degli animali di Orwell, siamo tutti uguali, solo che alcuni sono più uguali degli altri. Il mondo giornalistico è un mondo profondamente diviso. Bourdieu dice che non si può generalizzare o astrarre: parlare dei media o dei giornalisti in generale. Esistono media concreti e giornalisti concreti. Quindi, non esistono i media sloveni bensì media specifici con prassi specifiche.
La giornalista del quotidiano Delo che ha scritto sul nesso tra il più grande partito di opposizione e i gruppi dell’estrema destra rischia di venir incarcerata per aver rivelato un segreto di stato. Lo spazio mediatico è devastato. Non riesco a capire per quale ragione i giornalisti stessi non sono consapevoli delle condizioni in cui lavorano. Perché non ammettono che in tale situazione non possono rispettare la premessa della propria professione: difendere l’interesse pubblico?
Recentemente ha parlato anche della responsabilità degli stessi giornalisti per la situazione in cui versano. Secondo lei la loro colpa è legata anche al fatto che nella maggior parte dei casi sono diventati dei precari che proiettano il mondo luccicante dei loro padroni, riproducendo in questo modo lo status quo, le notizie superficiali e il sensazionalismo?
Sì. Halimi ha descritto bene questo punto. Come spiegare a un giornalista che il suo potere di influire sulle prassi commerciali del proprietario è identico a quello di una cassiera di influire sulla politica del proprietario di una catena commerciale? Nel momento in cui sono entrati a far parte dell'élite, i giornalisti hanno cambiato la loro idea su chi bisogna servire. Servire la comunità non è semplice.
Lei è stata ingaggiata dalla delegazione dell’Unione europea in Serbia nella creazione delle loro leggi sui media, che sono state recentemente approvate. Qual è la sua opinione riguardo alla qualità dell’esistente legislazione sui media in questa regione? Tenendo conto delle direttive dell’Unione europea in questo ambito, secondo lei è troppo a misura di mercatoo?
La politica dell’Ue sui media ha abbandonato da tempo gli obiettivi e la retorica dell’interesse pubblico. Non si parla più dei media bensì dei servizi e dell’industria creativa. Non esistono più i cittadini e i loro interessi, soltanto i consumatori e i loro piaceri. A mio parere, siamo diventati una civiltà che guarderà sorridendo, nonostante venga privata di ogni diritto, alla scomparsa della democrazia; piccoli Caligola che ricevono quotidianamente la loro dose di miseria rivestita di bellezza. Huxley aveva capito questa problematica ancora meglio di Orwell.
La liberalizzazione della pubblicità, il controllo delle sovvenzioni statali, il mercato unitario e la concorrenza: sono questi i termini con cui operano i nuovi documenti programmatici dell’Unione europea nell’ambito mediatico.
Altro problema sono i doppi standard che riguardano i paesi membri e quelli entrati nella fase di negoziazioni per l’adesione all’Ue. La questione della libertà di espressione non può essere oggetto di doppi standard. I negoziati di adesione sono importanti in quanto permettono un dibattito aperto su determinate problematiche, l’avvio di vere riforme riguardanti i media, la messa in discussione dell’esistente meccanismo dell’usurpazione dello spazio mediatico da parte delle élites locali. Non si tratta solo di concordare le legislazioni nazionali con la direttiva europea, ma anche di chiedersi se l’Unione europea disponga dei meccanismi adeguati per proteggere sistematicamente l’interesse pubblico.
Si ha l’impressione che l’Unione europea si trattenga da qualsiasi mossa concreta volta a proteggere i giornalisti, il pubblico, nonché gli stessi media. Perché è così? Come commenta la politica europea in questo contesto?
La risposta ufficiale sarebbe in linea con quello che la Commissione europea ripete continuamente: non abbiamo alcuna giurisdizione in questo ambito; è un problema degli stati nazionali. Ecco perché abbiamo casi come l'Ungheria, la Grecia o l'Olanda. Ecco perché abbiamo il caso del Lussemburgo, con il suo ex primo ministro (1995-2013) a capo della Commissione europea. Evidentemente se andava bene per il Lussemburgo va bene anche per l’Unione europea.
Dall’altra parte abbiamo il Parlamento europeo che da anni avverte la Commissione della necessità di intervenire in questo campo. Il palazzo della Commissione europea a Bruxelles è circondato dalle sedi delle più importanti aziende di media e telecomunicazioni. Loro hanno le risorse, i team legali e i propri lobbisti che sanno come raggiungere coloro che hanno il potere.
I cittadini europei non hanno praticamente nulla. Questa è, secondo me, corruzione sistematica.
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