Acquerello di Fiume © SAHAS2015/Shutterstock

Acquerello di Fiume © SAHAS2015/Shutterstock

A Fiume, pochi anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, alle ferite del conflitto si aggiunge lo scontro tra Tito e il Cominform e la caccia alle streghe contro gli jugoslavi accusati di "stalinismo". E' questo lo sfondo del romanzo "A Fiume, un'estate" di Ezio Mestrovich

28/10/2024 -  Diego Zandel

Va all’editore Ronzani il merito di ripubblicare alcuni vecchi titoli di autori della minoranza italiana in Istria e a Fiume, che altrimenti in Italia sarebbero immeritatamente sconosciuti. Parliamo di opere che, scritte da autori che vivono fuori dai confini della repubblica italiana, appartengono però a pieno titolo al mondo letterario italiano.

È il caso di Nelida Milani e di Ligio Zanini di cui Ronzani ha pubblicato, della prima, in più volumi, i suoi splendidi racconti, e del secondo quel capolavoro che è “Martin Muma”. Ora è la volta di Ezio Mestrovich, con il suo “A Fiume, un’estate”, uscito per la prima volta con l’Edit, la casa editrice della minoranza italiana, nel 2002.

La storia che “A Fiume, un’estate” racconta è ambientata nell’immediato dopoguerra, in una Fiume già parte della Jugoslavia, colta con la memoria dell’io narrante, Aldo, un bambino di nove anni, nel momento di un altro passaggio gravido di pericoli, persecuzioni, arresti, gulag.

Quello, cioè, relativo all’espulsione del regime di Tito dal Cominform, l’organizzazione internazionale che raccoglieva i partiti Comunisti di tutto il mondo a obbedienza sovietica, e la conseguente caccia, da parte dei titoisti, agli elementi stalinisti, considerati da un giorno all’altro nemici.

Da qui l’improvviso incancrenirsi dei rapporti tra “compagni”, quelli fedeli a Tito e quelli a Stalin, e che, attraverso colpi bassi, delazioni, sospetti, accuse e quant’altro, avevano suscitato nel paese – e nel caso del romanzo di Mestrovich, in città – un’atmosfera di paura, di diffidenza verso tutti, anche parenti e amici, nell’intento di non incorrere nelle feroci rappresaglie del regime.

La storia, come ho detto, è vista con gli occhi del bambino Aldo. Un punto di vista per il quale è difficile mantenere la barra dritta, perché l’autore deve aver sempre presente, mentre scrive, di chi è lo sguardo, la prospettiva. Mestrovich ci riesce abbastanza, fino a che è possibile.

Sicuramente ci riesce nella evocazione dei luoghi, dei giochi, quelli intorno al palazzo Baccich, dove Aldo viveva con i genitori e i nonni, così come nella evocazione dei colori e degli odori. Qui Mestrovich è molto bravo. Un pittore espressionista. Le sue descrizioni della Citavecia, e soprattutto quella della zona del mercato intorno a Teatro Verdi sono magistrali.

Il problema narrativo, rispetto al punto di vista, si pone quando il discorso si sposta sulla valutazione, seppur indiretta, della situazione politica del tempo. Non perché non corrisponda, anzi, è il pezzo forte del romanzo di Mestrovich. È che, però, se il punto di vista del romanzo è quello del bambino Aldo non poteva avere chiara, come appare, la situazione politica, cioè una coscienza così piena di quanto stava accadendo in città.

Appare evidente qui che il romanzo dà spazio a valutazioni sicuramente nate dopo nell’autore, con gli anni. C’è però anche da aggiungere, ad onor del vero, che se ciò in parte sbilancia il romanzo, non appare però stridente, anzi, in questo caso, forse, lo scantonamento sarebbe impossibile, visto anche che qui risiede il cuore della narrazione.

D’altra parte, quello del “punto di vista”, nella narrativa, è un dilemma che riguarda i più grandi scrittori. È difficile mantenerlo costantemente, perché va al di là dell’uso della prima o terza persona o del narratore onnisciente, come nell’800, e riguarda il taglio, la prospettiva, gli occhi della mente e del cuore che si danno a colui che l’autore sceglie come attore.

Ed ha molto a che fare anche con l’uso delle reticenze testuali, di quelle cose che l’autore magari sa, ma che il suo attore nel romanzo, nella proiezione che ne dà, può anche non sapere. Cioè, deve continuamente mediare immedesimandomi nell’attore prescelto.

Nel romanzo di Mestrovich, invece, giocano due fattori apparentemente antitetici, ma non di rado usati da molti scrittori. In questo caso i due fattori sono una vicenda vista con gli occhi di un bambino e la stessa vicenda vista con gli occhi della memoria, a posteriori, probabilmente quella dell’autore adulto, una memoria che il bambino, al momento, nel dipanarsi della storia, non può avere, almeno nella sua piena coscienza.

Altresì, in “A Fiume, un’estate”, una volta accettata la finzione, questo connubio antitetico, in qualche modo funziona, si innesta, dà i suoi frutti.

Nella letteratura giuliana il mondo visto con gli occhi del bambino non è raro. Pensiamo al “ciclo degli anni ciechi” di P.A. Quarantotti Gambini, dove, nei romanzi più significativi (“I giochi di Norma” e gli altri), egli racconta il mondo, nel passaggio dell’Istria dall’Austria-Ungheria all’Italia, visto con gli occhi di Paolo, un bambino che vive nella villa di famiglia nel Capodistriano, tra la campagna, le saline di Semedella e il mare. Ma anche Fulvio Tomizza.

Ad esempio, ne “La quinta stagione”, il punto di vista è quello di Stefano Marcovich, un personaggio più volte protagonista nei romanzi dello scrittore di Materada, come proprio alter ego. Ha scritto a riguardo Nicolò Gallo, a cui si deve la scoperta di Tomizza: “Una visione dove si fondono insieme gli avvenimenti e la favola che di essi si compone nella fantasia istintivamente poetica del ragazzo, di cui l’autore presta tanto di sé”.

Questa “fusione” di cui parla Gallo per il libro di Tomizza è, comunque, presente in gran parte anche nel romanzo di Mestrovich, anche se il bambino Aldo ogni tanto si ritrae di fronte a certe esigenze narrative dell’autore, sollecitato com’è da un nucleo narrativo costituito da un’urgenza più forte, che domina tutto il resto e rende secondario il pieno rispetto dell’impianto di fondo.

Questa urgenza è data dalla necessità di testimoniare, attraverso i personaggi che si agitano nel libro, il complesso momento, già segnato dal trapasso storico di Fiume dall’Italia alla ex Jugoslavia, subito seguito da una guerra ideologica tra comunisti.

Non a caso, il personaggio più rappresentativo in questo romanzo, a parte il bambino Aldo, è il padre, Erni, antifascista sotto l’Italia e, come tale, perseguitato, e adesso che è arrivato il sol dell’avvenire in cui aveva sempre creduto, si trova ancora nei panni del perseguitato perché sospettato di stalinismo. “Tuto se ripete” si dispera il padre “Ma se mai possibile che per noi non sia pace?”

L’arresto da parte dei titoisti, poi, era nato per delle normali discussioni politiche tra amici, in spiaggia, al bagno, quindi in un momento ludico in cui Erni esprime le sue intenzioni di andare via al seguito di altri fiumani comunisti che non accettavano la situazione creatasi nel dopoguerra, a un cambiamento non solo di gente proveniente da altrove, ma di atmosfera, di clima umano, cibo, sapori, odori, comportamenti, che fa dire ad Erni: “A poco a poco ti te acorgi che non va e non va. A poco a poco. Poi se ingruma tuto e un giorno ti disi basta, non ghe stago. Sarà che ti te ga stancà, sarà che ti ga ciapà coraggio, non so”.

Mestrovich è molto bravo a far emergere, essenzialmente dalle conversazioni tra i personaggi, il clima di inquisizione, di palingenesi del mondo di cui il comunismo si dichiarava portatore, ma che per attuarlo faceva uso di quelle stesse armi contro le quali avevano combattuto: la persecuzione delle idee diverse, la sottomissione delle libertà individuali e collettive, che poi finiva con l’uccidere i valori della libertà stessa.

In questo senso “A Fiume, un’estate” è un libro importante, essenziale, bello, per la testimonianza che porta da parte di uno scrittore, un uomo che, per le responsabilità affidategli dal regime nell’ambito della minoranza italiana, negli anni jugoslavi (è stato per anni direttore dell’EDIT), deve aver sofferto di parecchia bile, di cui questo romanzo porta un significativo esempio.