Nel 2016 i leader greco e turco ciprioti hanno più volte ribadito l'impegno verso un accordo per la riunificazione entro l'anno. Ma è improbabile accada
Il presidente greco-cipriota Nikos Anastasiadis e il suo omologo turco-cipriota Mustafa Akıncı sono stati impegnati da maggio dello scorso anno in una nuova fase di negoziati per la riunificazione di Cipro. La fine del 2016 è stata spesso indicata come termine ideale per la definizione di un accordo complessivo, da sottoporre a referendum nei primi mesi del 2017. Tuttavia allo stato attuale, pur non sembrando in discussione la buona volontà dei due presidenti nel guidare le rispettive delegazioni, è molto improbabile che un accordo possa essere raggiunto entro la fine dell’anno.
Gli ultimi mesi: ostacoli perduranti e presidenti di buona volontà
L’ultima fase negoziale è stata caratterizzata da due elementi incoraggianti: la gestione diretta da parte delle delegazioni greco e turco-cipriote – con il supporto delle Nazioni Unite – e soprattutto nelle prime battute, un evidente e reciproco ottimismo. Tuttavia, col passare dei mesi e la transizione dalla fase win/win (le concessioni vantaggiose per le due parti) alla fase del give and take (gli inevitabili compromessi), è cresciuta la consapevolezza che senza un maggior coinvolgimento dell'ONU difficilmente sarà possibile compiere ulteriori passi in avanti, qualunque cosa accada ai negoziati nel 2017.
Alcuni degli ostacoli che stanno rallentando la costruzione di un compromesso sono noti e mai superati da decenni – garanti esterni (Gran Bretagna, Grecia e Turchia), sicurezza, territorio – altri sono relativamente recenti – lo sfruttamento di idrocarburi al largo dell’isola – altri ancora, infine, derivano dalle opposizioni interne alle comunità, che i due presidenti non possono trascurare.
I capitoli negoziali sulla sicurezza e i garanti esterni sono intrecciati e gravitano fondamentalmente sul ruolo che la Turchia avrà nelle vicende di un eventuale futuro stato federale cipriota.
Tradizionalmente su questo terreno si fronteggiano due strategie negoziali e due posizioni inconciliabili: da un lato i rappresentanti greco-ciprioti hanno tradizionalmente teso a mantenere separata la discussione su sicurezza e garanti esterni dagli aggiustamenti territoriali che ogni compromesso implicherà e pongono il ritiro immediato delle truppe turche come condizione non negoziabile (accompagnata dal rifiuto di qualunque garante esterno in futuro).
Dall’altro, le delegazioni turco-cipriote hanno sempre cercato di mantenere interconnessi i temi sopra menzionati, in modo da poter bilanciare eventuali concessioni territoriali con il mantenimento del ruolo di garante per la Turchia, condizione pressoché non negoziabile dal punto di vista turco-cipriota.
Altri aspetti ben noti e irrisolti della questione cipriota, da quelli più strettamente governativi – presidenza a rotazione e bilanciamento dei poteri fra le due comunità – a quelli di natura finanziaria – proprietà e meccanismi di restituzione, compensazione o scambio – non sembrano nell’attuale fase dei negoziati insormontabili come le perduranti divergenze su sicurezza e territorio.
La questione dei giacimenti
Per quanto riguarda lo sfruttamento dei giacimenti di idrocarburi a largo dell’isola, dal 2011 ad oggi tale opportunità non ha solo prodotto contrasti, ma è stata considerata anche un possibile catalizzatore dei negoziati, alla luce dei vantaggi economici che offrirebbe agli abitanti dell’isola e, più in generale, delle opportunità di collaborazione che darebbe a vari attori del Mediterraneo orientale – in primis Turchia e Israele.
Attualmente, invece, sembra che da tali giacimenti possano derivare ulteriori attriti. Il governo della Repubblica di Cipro ha infatti ribadito la propria intenzione di concedere nel 2017 nuove licenze e avviare nuove perforazioni. Tuttavia, in assenza di un accordo per la riunificazione dell’isola, Ankara non resterà a guardare, come ha già dimostrato nel recente passato. Dal punto di vista turco-cipriota e turco, infatti, il governo greco-cipriota non ha il diritto di intraprendere autonomamente tali operazioni e gestire poi eventuali profitti per conto dell’intera popolazione dell’isola.
Gioco a somma zero
Terzo, ma non meno rilevante, ostacolo all’avanzamento dei negoziati è il tradizionale atteggiamento pregiudizialmente ostile e non costruttivo dei partiti di opposizione, in particolare greco-ciprioti. Come gli addetti ai lavori sanno bene, alcuni leader politici dell’isola sembrano aver costruito la propria carriera sulla conservazione della questione cipriota, ponendosi come alfieri della causa nazionale (greco o turca, mai cipriota) e fustigatori di ogni possibile concessione al “nemico”.
Ciò ha prodotto, nel corso dei decenni, una sorta di atteggiamento paranoico in tali esponenti della politica locale e nei loro elettorati di riferimento, che si manifesta nella percezione di complotti internazionali e oscure macchinazioni dietro ogni iniziativa e ipotesi di compromesso nei negoziati.
Sebbene in linea di principio nessun politico cipriota – salvo rare eccezioni – si dichiari contrario alla cornice federale, bizonale e bicomunitaria come base per un accordo e tutti affermino ritualmente di sperare in una “soluzione giusta e duratura”, nei fatti i professionisti del rifiuto concepiscono i negoziati come gioco a somma zero: se una parte ottiene qualcosa, l’altra viene necessariamente penalizzata.
L’idea che qualunque processo negoziale preveda delle concessioni e che queste non possano soddisfare le due parti in modo simultaneo, ma complessivamente possano bilanciarsi, non è mai diventata patrimonio condiviso nel confronto politico cipriota. A seguito delle elezioni del maggio scorso il parlamento greco-cipriota ha visto l’ingresso di alcuni partiti di piccole dimensioni, ma estremamente visibili nella critica preconcetta dei negoziati e nella strumentalizzazione delle dichiarazioni non conformi all’ortodossia lessicale che da decenni accompagna il dibattito politico nell’isola.
Anche il quadro delineatosi dopo l’ultimo rimpasto di governo turco-cipriota non è ottimale per l’andamento dei negoziati, ma a nord della Linea Verde eventuali ostacoli – o elementi favorevoli – derivano tradizionalmente dall’orientamento di Ankara, più che dalle retoriche oltranziste e irresponsabili di partiti locali.
Tali fattori sono stati almeno in parte controbilanciati dall’atteggiamento dei presidenti, che oltre ad aver avviato la nuova fase negoziale creando entusiasmo nelle rispettive comunità, hanno saputo prevenire il “fuoco amico” delle opposizioni interne, evitando di divulgare ogni elemento di novità prodotto dagli incontri fra le due delegazioni e i rappresentanti delle Nazioni Unite.
Nel passato più o meno recente, infatti, i momenti più difficili dei negoziati sono stati ulteriormente inaspriti, o ridotti allo stallo, proprio da recriminazioni e polemiche alimentate dai professionisti della divisione. Dalla medesima consapevolezza è nata la decisione di realizzare un summit a Mont Perelin (Svizzera), la cui prima fase si è svolta la scorsa settimana e che è ripresa domenica 20 novembre.
Gli incontri di Mont Pelerin: aspettative e scenari
Alla vigilia del summit, svoltosi tra lunedì e venerdì scorso, lo scenario più ottimistico prevedeva la finalizzazione di un accordo tra le due delegazioni e la convocazione d’una conferenza con i tre garanti (Gran Bretagna, Grecia, Turchia), prima di sottoporre l’eventuale accordo finale a referendum.
Pochi osservatori e addetti ai lavori, tuttavia, credevano in una simile possibilità. I cinque giorni di incontri in Svizzera non hanno prodotto significativi passi in avanti, anzi non sono mancati i momenti di contrasto fra le due parti. Nemmeno la definizione dei criteri con cui procedere agli aggiustamenti territoriali – quindi non la realizzazione di vere e proprie modifiche sulla mappa dell’isola – ha dato i risultati sperati.
Il processo negoziale non si è arrestato, ma il fatto di non esser riusciti a superare le divisioni su sicurezza e territorio – tralasciando altri temi – nemmeno in territorio neutro, lontani dagli attacchi delle opposizioni interne, non induce certamente all’ottimismo sul prosieguo dei negoziati. I due presidenti hanno quindi richiesto congiuntamente una pausa.
Se nelle prossime settimane, prima della fine dell’anno, le due parti dovessero raggiungere un accordo, sarebbero comunque necessari dei mesi per preparare adeguatamente i cittadini ciprioti al referendum, evitando uno degli errori commessi nel 2004, ovvero un intervallo di tempo troppo breve fra la conclusione dei negoziati e una chiara e convincente presentazione dell’accordo ai votanti.
Scenario sfavorevole
Nel 2017, tuttavia, lo scenario sarà probabilmente meno favorevole ai negoziati, per diverse ragioni. Innanzitutto, intorno alla metà del prossimo anno inizierà la campagna per le presidenziali nella Repubblica di Cipro e ciò renderà poco remunerativa in termini di popolarità la linea del compromesso con i turco-ciprioti.
In secondo luogo, alla fine di quest’anno terminerà il mandato di Ban Ki-moon, il cui coinvolgimento dei negoziati è stato richiesto proprio dalle due delegazioni ciprioti per superare gli ostacoli che greco e turco-ciprioti non sembrano in grado di affrontare autonomamente. Inoltre, le dinamiche politiche interne in Turchia, a seguito del colpo di stato, continuano a irrigidirsi. I rapporti fra l’Unione Europea e Ankara sono decisamente peggiorati e con essi sembra accantonato, almeno in questa fase, l’interesse turco per l’adesione.
In assenza del nesso fra soluzione della questione cipriota e ingresso nell’UE della Turchia, Ankara potrebbe irrigidire la propria politica verso l’isola e – secondo alcuni analisti – rispolverare l’ipotesi di annessione di Cipro Nord. Infine, un fattore meno direttamente all’opera, ma non trascurabile: la nuova amministrazione alla Casa Bianca.
Negli ultimi anni i rappresentati diplomatici statunitensi hanno dato il loro supporto alle relazioni fra greco e turco-ciprioti. È difficile prevedere se, e in che misura, i loro successori mostreranno un analogo interesse verso la riunificazione dell’isola.