Un libro dove le vicende pubbliche, private, intime, si arrotolano su se stesse, raccontando la tragica storia recente di Cipro. Una recensione
Nel cuore del Mediterraneo c’è un’isola con una storia tanto controversa quanto poco conosciuta. Si tratta di Cipro. Sappiamo cos’è oggi: un territorio diviso in due parti da un confine, chiamato Linea Verde e controllato dall’Onu: il 36 per cento di questo è stato occupato dall’esercito turco nel 1974, che ha dato vita alla Repubblica Turca di Cipro del Nord, riconosciuta solo dalla Turchia; il resto è in mano ai greco-ciprioti e alla vecchia Repubblica di Cipro, fatta eccezione di due grandi basi militari, Akrotiri e Dhekelia, conservate dagli inglesi dopo l’indipendenza dell’Isola dalla Gran Bretagna nel 1959. Un’indipendenza ottenuta dopo cinque anni di lotte, spesso sanguinose, da parte dei ciprioti contro il Regno Unito.
Una soluzione finale, che portò, con l’indipendenza sancita dal Trattato di Zurigo e Londra da Grecia, Turchia e Regno Unito, a un equilibrio istituzionale che prevedeva – con il mantenimento delle due basi militari britanniche - la presidenza della Repubblica ai greco-ciprioti, maggioranza nell’isola, e la vicepresidenza ai turco-ciprioti, con relativi seggi di rappresentanza in parlamento. La proclamazione della nuova Repubblica presidenziale sulla base di questa Costituzione vide alla prima presidenza l’arcivescovo Makarios III, che tanto aveva contribuito all'indipendenza dell’isola e all'elaborazione della sua costituzione.
Ma presto i guai si profilarono all’orizzonte con il colpo di stato dei colonnelli greci che cominciarono a solleticare le aspirazioni di alcuni nazionalisti greci, guidati dal generale greco-cipriota Grivas, con l’idea dell’Enosis, cioè dell’Unione con la Grecia. Makarios III riuscì per tutti i sette anni della dittatura greca a salvaguardare, tra mille tensioni, il difficile equilibrio etnico costituzionale, finché nel luglio del 1974 un colpo di stato sull’isola non costrinse l’arcivescovo alla fuga. A quel punto fu impossibile fermare la reazione turca che dal continente fece arrivare le sue armatissime truppe invadendo le coste nord e avanzando fino alla capitale, Nicosia, che venne per buona parte occupata, così come il nord dell’isola, con città importanti come Kirenia e Famagosta.
L’azione militare turca fu tanto rapida quanto feroce. Migliaia di greco-ciprioti furono massacrati, villaggi bruciati, Kirenia e, soprattutto, Famagosta ridotte a città fantasma, le case distrutte dal martellare delle artiglierie turche, la popolazione non turca in fuga, per chi trovava il tempo di sottrarsi alle sparatorie, alle raffiche di mitra, ai colpi dei mortai. Altrettanto accadeva con i turco-ciprioti che, per salvarsi dalle rappresaglie dei greco-ciprioti andavano incontro all’esercito turco.
Il fanatismo etnico era alle stelle. Non solo a Cipro, ma in tutte le isole greche prospicienti l’Anatolia e un tempo appartenute all’Impero ottomano.
Ho ricordi vivi di quel tempo, trovandomi in una di queste isole, Kos, della quale era originaria mia moglie, oggi scomparsa: fatti evacuare i turisti con navi d’appoggio, l’intera costa dell’isola era presidiata con bunker e artiglierie, così come la montagna con radar e postazioni militari, mentre sotto i viali più fittamente alberati dell’isola stazionavano, mimetizzati, file di cingolati, non visibili dall’alto. L’aeroporto, chiuso al traffico civile, era controllato in tutto il suo perimetro da soldati con contraeree e mitragliatori, e sulla pista erano stati disposti cavalli di frisia per impedire eventuali atterraggi nemici. I civili erano stati tutti allertati, con compiti di controllo del territorio, in particolare di notte. Per tutto quel tempo mi sono trovato ad essere, tutte le notti, l’unico maschio adulto in famiglia (trovandomi una volta anche alle prese con un soldato greco, un po’ su di giri per l’alcol, interessato alle donne). Molti anche i turchi dell’isola che attraversarono in barca il breve braccio di mare, tre miglia marine, che separano l’isola di Kos dalle coste turche, mentre ai turchi, troppo poveri per andarsene, di solito venditori ambulanti, era stato fatto obbligo di muoversi solo su alcuni itinerari comandati per prevenire eventuali azioni di spionaggio.
Immagino, pertanto, quale doveva essere stata la situazione a Cipro stessa, dove la guerra, vera e propria, era in corso.
Un’idea si può averla leggendo un libro del greco-cipriota Andonis Gheorghiu “Un album di storie”, edito dalla barese Stilo Editrice nella traduzione di Valentina Gilardi. Un libro singolare, perché seppure ascrivibile alla narrativa, racconta storie vere, testimonianze, che, mescolate insieme danno vita a un racconto corale. Non a caso la testimonianza di apertura s’intitola “Un gomitolo di storie”, che – come ricorda l’autore in una postfazione - era il titolo primigenio del libro. Un gomitolo proprio perché vicende, pubbliche e private, addirittura intime, e personaggi si arrotolano su se stessi, entrando e uscendo dalle varie scene, per dipanarsi in pagine, sì intervallate dai titoli, ma senza soluzione di continuità. Il tutto si riflette attraverso una scrittura priva di punti, di maiuscole, con “a capo” improvvisi, iati intesi a raccogliere sul filo della memoria spezzata una serie di elementi diversi e composti, alcuni davvero di grande impatto emotivo anche per il lettore, mentre la grande storia, dal colpo di stato contro Makarios III ai massacri, ai più recenti permessi ai greco-ciprioti e ai turco-ciprioti di attraversare per poche ore la Linea Verde, resta sullo sfondo.
Situazioni che inevitabilmente hanno inciso negli anni nelle relazioni intercorse tra le persone nel loro privato, famigliare e non, le cui conseguenze sono state anche non poche migrazioni, in particolare in Australia, e ritorni carichi di interrogativi e parole non dette. Tutte vicende intime, emozioni, relazioni personali e famigliari, nelle quali probabilmente molti si possono riconoscere. Mi viene in mente la storia rappresentata nel capitolo “uno di quelli” che racconta della scoperta di uno zio gay, emigrato in Australia, e nel gomitolo di storia nella quale si mescola la scoperta di lui di esserlo nella reazione feroce del nonno con una fotografia di quel giovane diventato ormai anziano stretto al suo compagno di una vita.
Ma non si può qui riassumere tutta l’umanità ferita che il libro dispiega. Ciascun lettore nel leggerli ritroverà la propria. Personalmente non ho potuto esentarmi da commuovermi quando alcuni greco-ciprioti, nel giorno del loro permesso ad attraversare la Linea Verde, sono tornati esuli, per una breve visita, nella propria casa nei territori occupati (ed è bene sottolineare: occupati non solo dai turco-ciprioti autoctoni, ma anche da turchi, circa 40mila, provenienti dall’Anatolia). Una testimonianza che potrebbe essere di Rena o Eleni o Stella o della loro madre, non importa, tanto le storie si somigliano, tanto sono simboliche e rappresentative: “Mi basta andare nella mia casa, e chi vuole abitare vicino a me lo faccia, staremo bene come allora, non aver paura, basta che possiamo tornare là, Madonnina cara, ti prego, fa’ un miracolo, fa’ che possiamo tornare alle nostre case”.
Quante volte, da esule istriano, ho sentito esclamare questo dai nostri vecchi. Ricordo mio padre con le lacrime agli occhi quando, io bambino, mi portò a Fiume a vedere la sua casa nel rione di Krnievo, dove era nato e cresciuto, e l’occupatore, un milizioniere, com’erano chiamati i poliziotti nella Jugoslavia comunista, proveniente chissà da dove che si era ritrovato quella villetta con l’orto intorno, faceva lo gnorri, fingeva di non capire perché papà volesse entrare dentro per mostrarmi le stanze dove abitavano. Poi l’uomo, ancora in divisa, con la stella rossa sul berretto, acconsentì, si scansò, con lo sguardo assente di chi rendeva sorda la propria coscienza di essere un usurpatore.
La testimone cipriota del libro invece ha la fortuna, se così si può dire, di vedere la propria casa occupata da un turco-cipriota, loro conoscente. “Hassan li aspettava ma vedendoli si vergognò quasi, o forse si vergognò di farsi vedere nella loro casa; li guardava piangere imbarazzato e lì accanto piangeva anche sua moglie, che continuava a dire ‘entrate in casa vostra, entrate in casa vostra’, lui non piangeva ma li capiva e ne aveva compassione, qual è in definitiva la casa di Hassan?”.