Khalimat Taramova, fermo immagine da Grozny TV

Khalimat Taramova, fermo immagine da Grozny TV

Il 10 giugno scorso l'ennesima storia di violenza nel Caucaso settentrionale: agenti della polizia e paramilitari hanno fatto irruzione in un rifugio per vittime di violenza domestica nella capitale daghestana Makhachkala. Molte attiviste che lavoravano lì sono state trascinate fuori con la forza e arrestate

28/06/2021 -  Claudia Ditel

Il 10 giugno un gruppo di Kadyrovtsy il gruppo paramilitare ceceno alle dipendenze del Presidente Ramzan Kadyrov, insieme ad alcuni agenti di polizia sia locale che cecena ha fatto incursione di un centro rifugio per vittime di violenza domestica nella capitale del Daghestan Makhachkala. Molte attiviste che lavoravano lì sono state trascinate fuori con la forza e arrestate. Sono poi state sottoposte ad interrogatorio e, una volta rilasciate, hanno postato delle foto su Facebook che ritraggono chiaramente segni di violenza sui loro corpi.

Secondo la ben nota attivista Svetlana Anokhina , che si trovava nel centro al momento del raid, la polizia ha forzato le porte senza neanche avere un mandato, in quella che lei non ha avuto timore di definire una violazione della costituzione. Due delle ragazze ospiti sono state condotte con l’inganno in un altro luogo e poi separate. Si tratta di Khalimat Taramova, 22 anni, e di Anna Manylova. La seconda è stata riportata a San Pietroburgo, di dove è originaria, mentre Khalimat, la figlia di Ayub Taramov, un uomo di stato vicino a Kadyrov, è stata ricondotta dai suoi familiari in Cecenia. Era per lei che gli agenti erano venuti.

Qualche giorno prima Khalimat era scappata di casa in seguito alla violenza domestica che aveva detto di aver subito dai suoi stessi familiari a causa del suo orientamento sessuale. Da quando si erano conosciute, Anna Manylova aveva appreso l’angoscia che viveva Khalimat e l’aveva aiutata a scappare mettendosi in contatto con alcuni attivisti. Durante la fuga verso Makhachkala, le due avevano cambiato tre taxi e gettato i telefonini. Come hanno fatto molte altre ragazze in fuga prima di loro, avevano programmato di fermarsi al centro solo una settimana, per riprendere poi il viaggio verso mete più lontane in cui sarebbero state più al sicuro. Ma il settimo giorno sono arrivati i poliziotti. Khalimat Taramova in un video che aveva girato una volta arrivata al centro rifugio in Daghestan, si rivolgeva alle autorità daghestane chiedendo di non essere riportata in Cecenia. Sapeva che i suoi parenti si sarebbero presto messi sulle sue tracce. Nonostante le promesse della polizia daghestana, questi ultimi hanno collaborato con le forze cecene per ritrovare Khalimat. Una volta a casa, la giovane ha dovuto affrontare un processo farsa e il rischio di essere l’ennesima vittima del delitto d’onore, una pratica diffusa in Cecenia che nemmeno il Presidente Kadyrov nasconde ma persino supporta pubblicamente.

Kadyrov è salito al potere nel 2007 come successore del defunto padre Akhmad Kadyrov. Il primo è spesso considerato come il protetto del Presidente russo Vladimir Putin, in quanto l’ascesa di Kadyrov al potere rappresenta il sigillo del processo di stabilizzazione della Repubblica cecena dopo le due sanguinose guerre tra Grozny e Mosca. Il prezzo del tenere a bada le mire secessioniste tramite l’autoritarismo di Kadyrov è il ritorno nella piccola Repubblica della Federazione di un neo-tradizionalismo in nome dei principi della Sharia e del Sufismo, un’interpretazione mistica dell’Islam ed una delle più radicali. L’intera società cecena si erge su un sistema clanico e su un modello paternalistico e patriarcale, a cui fa capo il culto della personalità di Kadyrov, in una ripetuta esaltazione di modelli di machismo e violenta mascolinità. Viene venerato il fisico sano e vigoroso, viene condannato severamente l’uso di alcol e droghe e vi è obbligo per le donne di indossare il velo.

Qualsiasi deviazione dai valori tradizionalisti dell’Islam viene punita con trattamenti disumani e degradanti, come le tristemente note purghe a cui vengono sottoposti gli omosessuali. Analogamente, i tassi di violenza di genere in Cecenia sono tra i più alti al mondo e la storia di Khalimat rappresenta solo la punta di un iceberg molto più largo e profondo, poiché l’autocensura è più diffusa della confessione in un contesto in cui regna un clima di impunità nei confronti degli uomini responsabili di violenza.

Nel giugno 2020, Mladina Umayeva, 23 anni, è ufficialmente morta cadendo dalle scale. Tuttavia a distanza di pochi giorni dal decesso la madre aveva iniziato ad avallare alcune voci che circolavano circa la responsabilità del marito. La stessa figlia si era più volte confidata con la madre riguardo la natura violenta dell’uomo. Ma non erano ancora giunti i risultati dell’autopsia che la madre di Mladina si era scusata pubblicamente ed in presenza dello stesso Kadyrov per aver accusato il genero senza prove. “A volte i litigi accadono e a volte i mariti usano le mani” ha commentato il Presidente. Il caso di Mladina non è mai stata riaperto.

Khalimat è stata assolta dal processo. È tornata a vivere con la sua famiglia e c’è il timore che sia precipitata in un incubo ancora peggiore di prima della fuga. In un reportage trasmesso dal canale TV locale Grozny, le telecamere inquadrano i suoi familiari che, mentre vengono intervistati dai giornalisti, esclusivamente uomini, siedono nel salotto di casa. Nessuna donna partecipa attivamente ai 35 minuti di reportage con la famiglia di Khalimat. A loro viene concessa qualche ripresa mentre bevono del tè in cucina.

La stessa Khalimat appare per pochi frammenti di filmato, dietro la sedia del padre, quasi a doversi riparare o nascondere, unica in piedi in un salotto di figure maschili, visibilmente scossa. Le si dà l’opportunità di giustificare la fuga come un momento di “annebbiamento” di cui conserva memorie confuse dopo aver parlato con alcuni psicologi che la seguivano da tempo. Si dice persino indignata della campagna di disinformazione dei media nei suoi confronti. Le sue parole fanno contrasto con il video girato dalla stessa poco dopo la fuga, in cui denunciava le motivazioni per cui era scappata.

L’immagine che viene trasmessa è di una ragazza debole, con problemi psichici, che è stata in maniera poco etica sfruttata dai media pro-occidentali per delegittimare i valori della società cecena. Seguono i commenti dello psicologo, dell’imam e del ministro degli Affari Interni. Quest’ultimo si lascia andare in un discorso enfatico sull’importanza di salvaguardare le istituzioni e le tradizioni cecene sotto attacco da una società (quella occidentale) in piena crisi dei valori, dunque pericolosa, quasi diabolica in combutta con i rappresentanti della “quinta colonna”.

Il caso di Khalimat ha avuto molta risonanza, soprattutto grazie al lavoro dell’attivista Svetlana Anokhina. È questa stessa risonanza che probabilmente ha contribuito a salvarle la vita ma, quando in futuro i media allenteranno la presa sulla sua storia e la sua famiglia, Khalimat torna a rischiare. E come lei molte altre vittime di violenza di cui le storie non hanno prodotto lo stesso scalpore ed eco tra i media.

I centri rifugio per le vittime di violenza godono di scarse risorse che permettono loro di aiutare le vittime temporaneamente ma non di opporsi in maniera significativa ad un intero sistema che considera la violenza di genere ancora un fattore privato e addirittura la incoraggia. In Russia la legge per la criminalizzazione degli episodi di violenza domestica è ancora al centro di uno scontro che difficilmente i difensori dei diritti umani riusciranno a vincere contro le forze conservatrici.

Il Presidente Kadyrov ha definito la stessa legge pericolosa nella misura in cui esporta un modello occidentale in cui “gli uomini sposano chissà quali creature”. La speranza è che l’ennesima storia di violenza nel Caucaso settentrionale funga da campanello d’allarme per la comunità internazionale. Dove non è possibile arrogarsi il diritto di intervenire per cambiare legislazione interna di un altro paese, è quantomeno auspicabile una presa di coscienza ed uno sforzo collettivo per non far sprofondare queste storie nell’oblio e per destinare maggiori fondi allo sviluppo in sostegno del lavoro dei centri di accoglienza.