"Seppellire il diritto d’asilo, cooperare con regimi autoritari, far annegare migliaia di persone ogni anno: nulla di questo è grave. Grave sarebbe se uno stato membro fosse obbligato ad accogliere un richiedente asilo contro la sua volontà". Con queste premesse come può l’UE celebrare la giornata mondiale del rifugiato?
Esattamente undici anni fa, in occasione della giornata mondiale del rifugiato, pubblicavo un pezzo intitolandolo “Ottocentomila star per un giorno ” (era l’epoca dei blog autogestiti e dei titoli in libertà). A rileggerlo oggi, mi sembra dia la misura del baratro in cui si è inabissata l’Unione europea.
Scrivevo della diffidenza degli stati membri verso i richiedenti asilo e della severità con cui la commissione criticava l’atteggiamento dei governi europei. Oggi i richiedenti asilo non sono accolti con diffidenza ma vengono fatti annegare in massa nel Mediterraneo, e la Commissione si rallegra quando il Consiglio dell’Unione europea raggiunge un accordo come quello dell’8 giugno scorso sul Patto sulla migrazione e l’asilo (per una presentazione dettagliata dell’accordo, che porta su due proposte di regolamento contenute nel Patto, quella sulla procedura di asilo e quella sulla gestione dell'asilo e della migrazione, rimando all’incisivo editoriale di Catherine Woollard , direttrice dello European council on refugees and exiles, disponibile in italiano su questo sito).
Aderire alla versione ufficiale parlando di un accordo “storico” sarebbe fuorviante. Il Patto è stato presentato nel 2020 ed è apparso subito evidente che rispecchiava alcune priorità condivise da tutti gli stati membri: ridurre il numero di arrivi di profughi attraverso vie “irregolari”, rendere ancora più difficile l’accesso alla protezione per chi raggiungeva il territorio dell’UE e aumentare il numero di rimpatri. Data la mole di proposte contenute nel Patto e le divergenze che su alcuni punti persistevano tra stati membri, era altrettanto evidente che l’approvazione sarebbe stata lenta e laboriosa.
Ma poiché sull’unica questione che rischiava di mandare a monte l’intero processo (ovvero come si determina lo stato membro competente per l’esame di una richiesta di asilo), si è deciso di non cambiare nulla (rimarrà il paese di primo ingresso del richiedente asilo), gli stati membri sono riusciti a portare avanti le discussioni, anche perché una serie di “novità” erano in realtà collaudate da anni e aspettavano solo di essere istituzionalizzate e legalizzate. L’approccio hotspot sperimentato in Grecia e in Italia è stato elevato a “procedura di frontiera obbligatoria” per tutti gli stati membri. Il rifiuto di ricollocare i richiedenti asilo sul proprio territorio, da indecente comportamento di pochi governi, è stato promosso a possibilità concessa a tutti.
Difficilmente ormai i comunicati stampa del Consiglio mi sconvolgono, ma questa frase mi ha colpito: “Nessuno stato membro sarà mai obbligato a effettuare ricollocazioni”. Quel “mai” è forse la parola che meglio riassume “il collasso morale” dell’UE denunciato in questi giorni da Andrew Stroehlein , European Media Director di Human Rights Watch. Seppellire il diritto d’asilo, cooperare con regimi autoritari, far annegare migliaia di persone ogni anno: nulla di questo è grave. Grave sarebbe se uno stato membro fosse obbligato ad accogliere un richiedente asilo contro la sua volontà. Ora possiamo stare tranquilli: non succederà mai. Siamo ufficialmente entrati nell’era del diritto di non accogliere e del suo corollario, il diritto di respingere.
Se proprio vogliamo trovare qualcosa di storico in questo accordo, oltre al “mai” citerei una cifra: 20.000 euro. È il valore dato a un richiedente asilo, il prezzo che pagheranno gli stati membri per poter rifiutare una ricollocazione. Nel 2020 la proposta aveva scandalizzato, oggi è realtà ed è considerata una forma di solidarietà. Un altro meccanismo di solidarietà presentato inizialmente nel Patto, l’altrettanto scandaloso “rimpatrio sponsorizzato” (che avrebbe dovuto permettere a uno stato membro di sottrarsi alla ricollocazione di un richiedente asilo partecipando al rimpatrio di un’altra persona da uno stato membro), è stato invece bocciato dal Consiglio, senz’altro per via della sua impraticabilità.
Come scrive Catherine Woollard, “l’obiettivo implicito [dell’accordo] è quello di trasferire la responsabilità ai paesi extraeuropei […]. Si punta sui paesi dei Balcani occidentali e del Nord Africa attraverso l’utilizzo di strumenti legali, tra cui il concetto di ‘paese terzo sicuro’. Tuttavia, le riforme non contribuiscono in alcun modo ad aumentare la probabilità che questi paesi accettino di accogliere persone rimpatriate dall’UE”. Il punto è proprio questo: i governi europei si illudono di condizionare le politiche di stati terzi ricorrendo ai soldi e ai ricatti, proprio come si illudono di ostacolare i movimenti delle persone ricorrendo alla violenza e affossando il diritto d’asilo. Ma ogni traguardo è provvisorio: gli stati terzi collaboreranno con l’UE solo finché ne ricaveranno qualcosa, i profughi troveranno altre vie per raggiungere l’Unione europea o per spostarsi all’interno dell’UE pur di raggiungere il paese dove hanno più legami o più opportunità.
Intanto le persone continueranno a morire come diretta conseguenza delle politiche dell’UE e della sua incapacità di “gestire il fenomeno della migrazione come qualunque altra questione sociale”, come scrive Alberto–Horst Neidhardt , analista presso lo European Policy Centre. Nel suo commento sull’accordo del Consiglio, osserva che i negoziati con il Parlamento europeo sulle due proposte di regolamento si annunciano tesi. Ma poiché la maggioranza degli eurodeputati, proprio come il Consiglio, desidera chiudere il Patto entro la fine della legislatura, possiamo aspettarci che molte di queste “novità” diventino legge. E a rimetterci, come denuncia Woollard nella sua classifica di vincitori e perdenti dell’accordo dell’8 giugno, saranno innanzitutto i rifugiati.
Tra i vincitori, oltre alla Commissione, ai governi sostenitori della linea dura, alla presidenza svedese e ai trafficanti di migranti (“che potranno chiedere più soldi per viaggi più lunghi e complessi”), aggiungerei un ultimo nome: Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, che operando nei principali ambiti contemplati dall’accordo (centri di detenzione alle frontiere esterne, analisi e previsione delle “pressioni migratorie”, rimpatri, cooperazione con gli stati terzi), ha appena avuto una nuova conferma della centralità del suo ruolo. E quando vince Frontex, l’Unione europea si allontana sempre più dalla possibilità di concepire la migrazione “come qualunque altra questione sociale”.
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