
A Marsiglia - © ChameleonsEye/Shutterstock
Le discriminazioni su base religiosa sono in aumento in Europa, e colpiscono circa metà della popolazione musulmana. L’islamofobia ha molte facce, non sempre difficili da rilevare. Ma esistono anche progetti di dialogo e inclusione di successo
Il 50% dei musulmani residenti nell’Unione europea ha subito episodi di islamofobia tra il 2016 e il 2022. È uno dei dati più allarmanti che emergono dal rapporto Being Muslim in the EU (“Essere musulmani nell’UE”), pubblicato dall'Agenzia per i diritti fondamentali dell’Unione europea (FRA) nell’ottobre 2024.
Il rapporto – il più recente e tra gli studi più accurati mai realizzati sul fenomeno – cerca di fotografare il livello di discriminazione e odio nei confronti dei musulmani che vivono nell’Unione, partendo da un sondaggio che ha coinvolto tra il 2021 e il 2022 ben 9.604 musulmani in tutta Europa.
A differenza di altri studi simili, condotti da organizzazioni quali l’OSCE o gruppi della società civile come la Rete europea contro il razzismo (ENAR), che si basano su dati nazionali spesso non divisi per genere e in cui l’appartenenza religiosa viene estrapolata dall’etnia, l’Agenzia per i diritti fondamentali ha intervistato soltanto persone che si dichiarano musulmane. Il 48% di loro ha la cittadinanza in un Paese dell’UE.
Discriminazioni in aumento
Rispetto al precedente studio condotto dalla FRA, la percentuale di musulmani europei che dichiarano di avere subito una discriminazione razziale è aumentata di undici punti percentuali (nel 2016 era del 39%).
Secondo il rapporto, le forme di discriminazione che colpiscono più spesso i musulmani residenti in Europa avvengono durante la ricerca di un’occupazione o sul luogo di lavoro stesso. Nei cinque anni precedenti al sondaggio, il 35% degli intervistati ha infatti subito una discriminazione sul posto di lavoro, e il 39% mentre cercava un impiego. Per molti di loro non si tratta di un’impresa facile: il numero di musulmani che finiscono per essere occupati in posizioni e mansioni ben inferiori alle loro qualifiche è il doppio rispetto al resto della popolazione.
L’islamofobia si manifesta anche nella ricerca di una casa, dove il 35% dei partecipanti al sondaggio della FRA ha dichiarato di essere stato discriminato (nel 2016, la percentuale rilevata era stata del 22%). E nella fruizione di servizi sanitari: l’11% dei partecipanti sostiene infatti di avere subito una discriminazione in quel contesto.
Le donne subiscono l’islamofobia molto più degli uomini. Secondo i dati raccolti dalla FRA, nei cinque anni precedenti al sondaggio il 45% delle donne musulmane che indossano abiti tradizionali o connotati dal punto di vista religioso ha sofferto discriminazioni durante la ricerca di un lavoro. La percentuale cala al 35% per gli uomini, e al 31% per le donne che non indossano indumenti tradizionali o religiosi.
“Il velo è associato a sospetto. In Europa esiste un infinito dibattito legato al velo, ma le donne musulmane non vengono ascoltate: sono ridotte a stereotipi, non vengono considerate parte attiva nella società”, afferma Schirin Amir-Moazami, docente di sociologia dell’Islam alla Freie Universität di Berlino. “Sono considerate vittime di norme patriarcali, e generalmente si pensa anche che sia colpa loro: potrebbero ‘semplicemente disfarsi del velo’. Questo fa parte non solo del discorso dell’opinione pubblica, ma delle istituzioni e della politica stessa”.
Per Amir-Moazami, la maggior parte dei mezzi di informazione in Europa contribuisce a rafforzare questa narrazione, limitando la copertura di donne e uomini musulmani a episodi negativi, scandalosi, sensazionalistici. La stessa ENAR, nell’analizzare i media europei, parla di una generica e monolitica rappresentazione della donna musulmana come debole e oppressa, senza capacità di scelta, ma poi paradossalmente talvolta viene identificata come pericolosa.
I limiti dei numeri
Austria, Germania, Finlandia e Danimarca emergono come i paesi meno tolleranti tra i 13 in cui si è svolta la ricerca dell’Agenzia per i diritti fondamentali dell’UE, mentre Italia, Spagna e Svezia risulterebbero quelli con una minore incidenza di discriminazioni.
I dati, tuttavia, raccontano solo una parte del fenomeno. Come accade anche per altri tipi di discriminazioni, qualsiasi studio esistente sull’islamofobia sottolinea la forte tendenza dei musulmani europei a non denunciare gli episodi di intolleranza che subiscono. Solo il 4% degli intervistati dall’Agenzia per i diritti fondamentali ha dichiarato di aver presentato denuncia per gli attacchi o le discriminazioni subite.
Svezia (21%), Finlandia (14%) e Paesi Bassi (11%) sono i Paesi dove si denuncia di più, mentre l’Italia (2%) è quello dove si denuncia di meno. Insieme al Lussemburgo e alla Spagna, l’Italia è anche lo Stato dell’UE in cui vi è meno consapevolezza tra i musulmani dei meccanismi di parità. Secondo il rapporto, proprio il subire discriminazioni accresce la sfiducia delle vittime verso la polizia e le istituzioni.
Più in generale, è assai arduo misurare i livelli di islamofobia. Come sottolineato dalla rete tedesca CLAIM , oltre agli episodi espliciti di islamofobia, esiste un’islamofobia implicita che attraversa ogni giorno il linguaggio mediatico ed è presente in tutti gli ambiti e settori della società, non esclusivamente tra l’estrema destra.
Paura del diverso?
L’ENAR definisce l’islamofobia come “una forma di razzismo, risultato della costruzione sociale di un gruppo al quale sono attribuite certe specificità e stereotipi”. La dimensione religiosa si combina quindi con quella etnica e razziale: di conseguenza, l’islamofobia può colpire anche persone che non praticano l’Islam, ma che sono percepite come musulmane per via della loro etnia o retroterra migratorio.
Secondo il rapporto dell’Agenzia per i diritti fondamentali dell’UE, il 39% degli intervistati individua nella propria etnia o storia migratoria il principale fattore della discriminazione subita.
Per Stefano Allievi, sociologo dell’Islam all’Università di Padova, in Italia “non riusciamo a parlare dell’islam senza farne un nemico. Preferisco non chiamarla islamofobia – non è sempre, tecnicamente, una paura – ma non è meglio, è anche peggio. Odiare qualcuno senza aver nessun motivo per farlo è ancora più grave”.
“Non c’è più distinzione tra l’immagine del migrante e l’identità musulmana nel discorso politico di oggi”, afferma Francesco Trupia, ricercatore all’Università di Toruń in Polonia. “Da un punto di vista retorico, la nuova destra sovrappone le due identità, non sempre collegate. Non dovrebbe farlo, ma gioca molto sulla paura della gente e i problemi di sicurezza. Quando ci fu la crisi dei rifugiati siriani nel 2015, in Polonia e Ungheria vi erano livelli di islamofobia più alti rispetto a Paesi che avevano forti minoranze musulmane. Era un paradosso: c’era un’islamofobia sistemica senza musulmani”.
Secondo Trupia – i cui studi si focalizzano sulla transizione post-socialista e la partecipazione politica delle minoranze nell’Europa centro-orientale – l’aumento dell’islamofobia è un fenomeno legato anche alla caduta del comunismo.
Con il crollo del muro di Berlino, “le democrazie liberali non avevano più il comunismo come nemico, e l’Islam iniziava a sostituirvisi. L’impennata clamorosa arriva con l’11 settembre 2001 e la conseguente ‘dottrina Bush’ – ma prima c’era stata la guerra in Bosnia, dove i musulmani furono trucidati. E c’era stato il Kosovo, dove i musulmani soffrirono maledettamente il nazionalismo serbo del regime di Milosevic”.
Dopo la strage compiuta in Israele da Hamas il 7 ottobre 2023 e la conseguente reazione israeliana – sotto indagine alla Corte dell’Aja per crimini di genocidio –, l’OSCE ha rilevato un aumento degli episodi di islamofobia in Europa, che prendono la forma di “discorsi di odio online e offline, minacce e violenze” verso le comunità musulmane.
Il direttore dell’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani dell’OSCE, Matteo Mecacci, ha sottolineato l’importanza di “agire con urgenza e garantire che si eviti la stigmatizzazione o la retorica incendiaria”.
Allo stesso tempo, l’OSCE ha segnalato l’aumento di attacchi antisemiti verso comunità ebraiche e luoghi di culto. Secondo l’organizzazione , “l'odio nei confronti di persone appartenenti a specifiche comunità religiose o di credo raramente avviene in modo isolato e spesso va di pari passo con altre forme di intolleranza”.
Possibili soluzioni
La Rete europea delle città contro il razzismo (ECCAR) ha indicato in una raccolta capillare e costante di dati, nella sensibilizzazione e nell’inclusione le chiavi per cercare di contrastare l’islamofobia all’interno dell’Unione europea. Secondo la Rete, è “imperativo considerare l’esistenza del razzismo antimusulmano come barriera al successo dello sviluppo politico ed economico delle società multiculturali post-immigrazione in Europa nel suo insieme”.
I Comuni, in qualità di enti di primo livello, dovrebbero favorire la collaborazione con le realtà anti-discriminazione presenti sul territorio e raggiungere le comunità musulmane non solo attraverso l’apertura e il dialogo, ma anche fornendo indicazioni concrete su come denunciare casi di discriminazione e reati d’odio.
Esempi virtuosi elencati nell’ultima guida alle azioni locali contro l’islamofobia dell’ECCAR sono Graz in Austria, Bologna in Italia e Chemnitz e Berlino in Germania.
In seguito a ripetuti attacchi islamofobi, riguardanti in particolare donne musulmane, l’Ufficio antidiscriminazione della Stiria – la regione di cui Graz è capoluogo – ha istituito a partire dal 2016 gruppi di lavoro e tavole rotonde per permettere alle vittime di riflettere sulle loro esperienze e scambiarsi, rafforzando la loro fiducia nelle istituzioni e nella comunità locale.
Chemnitz, città della Germania orientale, era descritta fino al 2018 come una delle realtà tedesche più xenofobe. Il Comune, aiutato anche da imprenditori locali e dall’università cittadina, è intervenuto stimolando l’incontro tra culture diverse.
Per l’ECCAR, al dialogo va affiancata un’inclusione sempre maggiore, affrontando “la mancanza di leadership e di partecipazione significativa dei gruppi razzializzati” nei processi democratici e dando più spazio a donne e uomini musulmani su questioni di pubblico interesse, non soltanto quando si parla di Islam.
Bologna e Berlino sono invece menzionate, in particolare, per aver rafforzato la propria rete anti-discriminazioni. A fronte della crescente islamofobia nelle scuole, proveniente in particolare dal corpo docente, la capitale tedesca ha infatti istituito nel 2021 il primo ufficio scolastico antidiscriminazione (ADAS).
Nello stesso anno il capoluogo emiliano, per ovviare ai problemi di mancata denuncia e mancata segnalazione degli episodi di islamofobia, ha lanciato insieme a trenta organizzazioni della società civile lo sportello antidiscriminazioni SPAD, raggiungibile anche online.
In Trentino
Tra il 2020 e il 2024, nell'ambito del progetto INGRiD, coordinato dal Centro per la Cooperazione Internazionale, una rete di organizzazioni della società civile ha promosso l'approccio intersezionale nelle politiche e nelle pratiche al contrasto alle discriminazioni in diversi territori italiani. In Trentino, un tavolo di lavoro della società civile che ha coinvolto anche lo Sportello antidiscriminazioni di Trento, ha ideato un questionario per favorire l'emersione di dati sulle discriminazioni, integrando una prospettiva intersezionale nella raccolta, nel monitoraggio e nell’analisi dei dati sulle discriminazioni a livello locale.
Questo articolo è stato prodotto nell'ambito di “MigraVoice: Migrant Voices Matter in the European Media”, progetto editoriale realizzato con il contributo dell'Unione Europea. Le posizioni contenute in questo testo sono espressione esclusivamente degli autori e non rappresentano necessariamente le posizioni dell'Unione europea.