Le fotografie di Euromaidan in Ucraina ci interrogano sulla violenza e la sua rappresentazione. È possibile trattare questioni geopolitiche complesse sui social media senza perdere di vista il contesto e la sostanza politica degli eventi?
Lunedì scorso è andata in onda un'interessante puntata di Alaska XL, settimanale di Radio Popolare, nostro media partner nel progetto europeo "Safety Net for European Journalists" che vedrà impegnati per un anno OBC e numerosi partner in Italia e Sud-est Europa sul tema della libertà dei media e del pluralismo dell'informazione.
Il titolo della puntata di Alaska XL, condotta da Marina Petrillo, da sempre attenta alle narrazioni collettive che si compongono nella rete, è "The media issue". Una puntata tutta dedicata ai media, vecchi e nuovi, alle loro trasformazioni, al modo in cui la politica si agita e si riflette in essi.
I luoghi, reali e virtuali, attraversati sono tanti, così come gli apporti che disegnano la trama della puntata. Si parte da una riflessione sulle immagini di Euromaidan, si passa presso la villa di Yanukovich che da luogo blindato e segretissimo è diventato un laboratorio di giornalismo investigativo, si attraversa una piazza più lontana, quella turca, con l'aiuto di un blog che mappa gli intrecci tra media, interessi economici e trasformazioni politiche tra scandali e guerra di intercettazioni, e si approda in Egitto, dove è iniziata la rivoluzione che ha cambiato il senso dei social media.
Ma la puntata di Alaska XL si apre con una riflessione su un aspetto specifico che riguarda i media: il rapporto tra violenza e immagine. Marina Petrillo riprende un dibattito aperto da Sarah Kendzior dalle pagine del magazine USA Politico, e continuato da Emily Bell, tra i massimi osservatori mondiali di social media. Il dialogo nasce dalle fotografie di Euromaidan che interrogano sulla violenza e la sua rappresentazione, e chiamano direttamente in causa i social media.
La Kendzior, nel suo articolo dal titolo provocatorio "Il giorno in cui abbiamo finto che ci importasse dell'Ucraina", riflette con amarezza e disincanto sulla rappresentazione della violenza al tempo di internet, osservando come in molta parte della stampa statunitense ed occidentale (la giornalista prende esplicitamente di mira il sito di informazione Buzzfeed), la parola più usata per descrivere i fatti di Kiev è "apocalisse". Le foto di piazza Maidan, tutte cromaticamente simili, rosso-fuoco, grigio-fumo, arancione elettrico su un cielo blu virtuale, hanno inondato i social media di tutto il mondo diventando, secondo la giornalista, nient'altro che "click bait", esche digitali.
Che cosa significhi quella violenza per gli ucraini non interessa a quelli che la Kendzior chiama "autori apocalittici", preoccupati soltanto di una cosa: il traffico internet. Il perché della violenza è ignorato nella competizione a colpi di click dove, continua la giornalista, "una fotografia vale zero parole", e l'unica cosa che conta è il "wow" di fronte al fuoco, al fumo, al sangue: guardare senza vedere.
Le conclusioni di Sarah Kendzior sono durissime: "l'America ha trovato un suo modo di confrontarsi con l'orrore insondabile: trasformarlo in pornografia, pornografia del disastro, pornografia della povertà". Esperienze visive pruriginose e lontane dalla partecipazione, dalla sostanza (politica), dalle conseguenze, in cui la violenza risulta depersonalizzata, e distante dal dolore delle persone. In questa "meccanica della crudeltà", che è poi anche meccanica dei click e dei like, e nella valanga di immagini apocalittiche "ad alta risoluzione" ma a "bassa spiegazione", la giornalista vede una "passione svuotata di compassione", che non aiuta a capire e rimuove la violenza dal suo contesto politico. E, ricordando che la "violenza non esiste mai in un vuoto", invita a non consumare le immagini che vengono da Kiev senza contesto, ma a "vedere" davvero.
La risposta alla provocazione di Sarah Kendzior arriva dalle pagine del Guardian, attraverso la penna di Emily Bell che "normalizza" la polemica sollevata dalla collega americana, sostenendo che quella della rappresentazione della violenza è, nella sua sostanza, una questione vecchia come è vecchio il giornalismo di guerra. Secondo la Bell, l'unica novità del presente è il numero delle immagini a disposizione e le possibilità esponenziali della loro diffusione. Piuttosto, continua, la questione vera e nuova è se sia possibile, al tempo dei social media, che problemi complessi come le crisi geopolitiche possano essere trattati con le stesse tecniche della stampa "tabloid". E' proprio questa, per la giornalista, la sfida per i media che ambiscano ad essere accessibili e ad informare il pubblico oltre le élite. Anche se, 9 volte su 10 il lettore non va oltre l'immagine esplosiva e la sensazione che essa provoca, scrive la Bell, "cosa diciamo di quell'uno su 10 che va avanti a leggere ed approfondire?" "Una cosa è certa - continua - per il pubblico più giovane e distante dai media mainstream l'incontro con un tema lontano e nuovo difficilmente inizierà con un articolo di 5.000 parole su Foreign Policy".
I nuovi media a suo avviso pongono una seria sfida ai media tradizionali perché utilizzano meglio i meccanismi della stampa frivola, adattandoli a questioni complesse e bilanciando multimedia, mappe e grafici con importanti contenuti fattuali, e riuscendo ad avvicinarsi ad un pubblico più giovane, spesso alla ricerca di informazioni dettagliate per capire il mondo. Non sappiamo, conclude Emily Bell, se un flusso di immagini e di informazioni di questo tipo significhi maggiore impegno e consapevolezza oppure "de-sensibilizzazione". Sappiamo solo che bisogna pur iniziare da qualcosa, anche da quella persona, l'unica su dieci, che ricerca e approfondisce dopo aver cliccato su like.
La conclusione di Emily Bell incrocia, così come tutto il confronto, il pensiero di Susan Sontag racchiuso nel saggio "Davanti al dolore degli altri". Secondo la Sontag, che riflette sulla rappresentazione del dolore e la forza delle immagini nella società mediatica, non è la quantità di immagini a svuotare il dolore e rendere lo spettatore indifferente a ciò che guarda, ma è "la passività che ottunde i sentimenti". Se anche per la scrittrice americana, è inevasa la domanda sul se e sul come le immagini del dolore possano condurre all'impegno, a modificare idee e comportamenti, resta comunque la necessità di continuare a guardare, perché le immagini possono fornirci quella "scintilla iniziale" che tocca poi al pensiero trasformare in riflessione e comprensione.
Resta però il dubbio se lo spazio, tanto dilatato e affollato di contenuti, e il tempo dell'informazione digitale e dei social network, così veloce e frenetico, contemplino l'esistenza di "luoghi protetti" dove sia possibile esercitare il pensiero e provare empatia.
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