Il recente rapporto annuale di Reporters Sans Frontières evidenzia un raddoppiamento degli atti di violenza nei confronti dei giornalisti, in particolare nell’area sud est europea
L’ultimo rapporto di Reporters Sans Frontières (RSF), pubblicato martedì 20 aprile, segnala un aumento delle violenze nei confronti dei giornalisti sul territorio europeo. «Tutto il continente si è impegnato pienamente nella lotta alla pandemia di Covid-19, ma solo pochi paesi possono dire di aver difeso con lo stesso vigore anche la libertà di stampa», sostiene RSF. La misure introdotte per frenare la diffusione del coronavirus sono infatti state accompagnate spesso da limitazioni all’accesso alle informazioni per i giornalisti, se non addirittura da fermi e arresti e, a volte, da violenze.
Nel Sud-Est europeo quasi tutti i paesi hanno registrato questo tipo di fenomeni, al punto che nella regione RSF segnala un raddoppiamento degli atti di violenza nei confronti dei giornalisti. La Slovenia – che perde quattro posizioni nella classifica di Reporters Sans Frontières assestandosi al 36° posto – ha intrapreso «una strada pericolosa per la libertà di stampa», nota RSF. Dopo l’arrivo al potere di Janez Janša (SDS, estrema destra) nel marzo 2020, alcune tendenze negative già presenti nel paese (attacchi verbali ai giornalisti da parte dei politici, cause pretestuose e intimidatorie…) si sono accentuate. Seguendo il modello del suo alleato Victor Orbán, il Primo ministro sloveno ha ad esempio sospeso i fondi per l’agenzia pubblica STA e minato l’indipendenza editoriale della TV pubblica.
In Croazia (56°) diversi attacchi fisici ai giornalisti sono stati segnalati nel 2020. Nell’aprile scorso, ad esempio, due reporter sono state aggredite mentre filmavano una messa tenutasi in violazione delle misure epidemiologiche, a dicembre scorso due uomini hanno fatto irruzione in una redazione a Zara colpevole di aver denunciato un matrimonio organizzato in violazione delle regole. È un fenomeno che si segnala anche altrove (ad esempio in Italia e in Francia) e che prova, secondo Reporters Sans Frontières, «l’odio o l’incomprensione per il giornalismo», in particolare quando i colleghi sono impiegati a coprire i movimenti estremisti o complottisti. Infine, le cause temerarie continuano ad essere ampiamente usate in Croazia per intimidire i reporter: l’Associazione dei giornalisti croati (HND) conta ben 924 cause per diffamazione in corso.
In Serbia (93°) emerge il caso di Ana Lalić che nell’aprile scorso è stata arrestata e trattenuta dalla polizia per una notte intera per aver realizzato un reportage in cui il personale medico di un ospedale lamentava la mancanza di materiale sanitario. Proprio in quei giorni, Belgrado aveva approvato una legge che rendeva il governo serbo l’unica fonte autorizzata per le informazioni legate al coronavirus. Lalić è stata successivamente rilasciata e la legge abrogata. Sempre in Serbia, RSF lamenta il fatto che a 21 anni di distanza dall’assassinio del giornalista Slavko Ćuruvija non sia ancora stata fatta giustizia: al contrario, la giustizia serba ha recentemente annullato in appello le condanne emesse in primo grado.
Un altro processo coinvolge da anni in Montenegro (104°) il giornalista Jovo Martinović, imprigionato ingiustamente e accusato di spaccio di droga e associazione a delinquere, per aver realizzato un reportage sui trafficanti. Martinović, che ha lavorato per la BBC, The Economist e The Financial Times, è in prigione dal 2019 e nell’ottobre 2020 un tribunale lo ha condannato ad un altro anno di prigione, «malgrado la mancanza di prove» scrive RSF . Dopo trent’anni di governo guidato da Milo Đukanović, un nuovo esecutivo è arrivato al potere a Podgorica nell’agosto del 2020, assicurando di voler fare della difesa della libertà di stampa una delle sue priorità.
Le pressioni sulla stampa continuano anche nella vicina Albania (83°), dove «il governo ha preso il controllo di due televisioni indipendenti con la scusa delle incriminazioni per traffico di droga nei confronti del loro proprietario», scrive l’organizzazione internazionale per la libertà di stampa. Nel 2020 il paese ha fatto parlare di sé per una nuova legge sulla diffamazione accusata di aumentare il livello di censura. È stata temporaneamente bloccata da un veto da parte del capo di Stato. Infine, la pandemia, come in altri paesi della regione, ha accentuato le difficoltà economiche dei media, ma senza che il governo intervenisse a loro favore.
Se la Bosnia Erzegovina (58°) non registra casi di attacchi fisici ai reporter, persiste nel paese il clima di contrapposte retoriche nazionaliste e attacchi verbali, con l’aggiunta di una maggiore difficoltà di accesso alle informazioni legate alla pandemia (le conferenze stampa del governo si sono spesso svolte senza la presenza dei giornalisti e senza spazio per le domande). L’autocensura, nota Reporters Sans Frontières, rimane un problema serio tra i media bosniaci.
Il Kosovo (70°), che scivola di ben otto posizioni nella classifica di RSF, ha visto nel 2020 il caso della caporedattrice del sito KoSSev, Tatjana Lazarević, arbitrariamente fermata per strada dalla polizia mentre copriva gli effetti della crisi sanitaria. Inoltre, anche qui la pandemia rischia di aggravare le già fragili condizioni finanziarie in cui versano molti organi di stampa. Diversi quotidiani hanno ad esempio dovuto dire addio alla versione cartacea.
Infine, la Macedonia del Nord (90°) ha vissuto un anno particolarmente tormentato nel 2020, con la dissoluzione del parlamento, l’arrivo di un governo provvisorio e poi le elezioni anticipate, posticipate a causa della pandemia. Tutto ciò si è tradotto in un peggioramento del contesto mediatico. Ora, scrive RSF, il nuovo ministero di Giustizia sta lavorando ad un nuovo codice penale che dovrebbe rendere più sicuro il lavoro dei giornalisti.
All’infuori dai confini dell’ex Jugoslavia, la Bulgaria segna uno dei risultati peggiori dell’area, finendo 112° nella classifica (fa peggio solo la vicina Turchia, 153°). Il rapporto di Reporters Sans Frontières cita il caso del giornalista investigativo Nikolay Staykov, vittima di minacce e sottoposto a protezione da parte della polizia solo dopo l’intervento pubblico di RSF e altre organizzazioni per la libertà di espressione. Ha avuto meno fortuna Dimiter Kenarov, giornalista freelance, arrestato nel settembre scorso mentre copriva una manifestazione antigovernativa. Nonostante il suo arresto violento (il giornalista dice di essere stato trascinato e presto a calci) e immotivato, le autorità bulgare hanno deciso di non aprire alcune inchiesta sui fatti.
In Romania (48°) RSF denuncia una mancanza di trasparenza e scarsa comunicazione da parte del governo durante la crisi legata al coronavirus. Inoltre, con l’intento di frenare il diffondersi delle fake news, le autorità hanno annunciato nuove norme restrittive nei confronti delle piattaforme online, mentre un investimento di 40 milioni di euro nel settore dei media per combattere la disinformazione e sensibilizzare il pubblico è stato accusato di poca trasparenza nella distribuzione dei fondi e ha finito per incoraggiare l’autocensura. Non ci sono stati tuttavia attacchi ai giornalisti.
Infine, in Grecia (70°) «la libertà di stampa ha sofferto nel 2020», scrive RSF. I giornalisti hanno dovuto chiedere permesso al governo prima di entrare negli ospedali, mentre il ministro della Salute ha vietato agli operatori sanitari di parlare con i media. A febbraio, alla TV pubblica è stato ordinato di non mandare in onda un video che circolava sui social media e che mostrava come il Primo ministro avesse violato il lockdown. Ci sono poi stati casi di arresti arbitrari di giornalisti stranieri mentre intervistavano dei migranti. Apice di questa serie di eventi, nell’aprile scorso, il giornalista investigativo Giorgos Karaivaz è stato assassinato fuori casa sua ad Atene con dieci colpi di pistola. Le indagini sono ancora in corso.