Quanto hanno contato nelle recenti elezioni georgiane le questioni legate ad Abkhazia e Ossezia del Sud? Ne abbiamo parlato con Olesya Vartanyan, analista specializzata nei conflitti indipendentisti e separatisti dell’area caucasica
“Il 20% della Georgia è occupato dalla Russia”: una scritta, con riferimento ai “conflitti congelati” dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud, che è possibile trovare in diversi angoli di Tbilisi, a volte anche sul menù dei locali. Non a caso il tema della guerra – sia come spauracchio generale, sia nello specifico dell’invasione in Ucraina o appunto dell’ultimo periodo di combattimenti “caldi” sul territorio della repubblica caucasica nel 2008 – ha fatto capolino nella campagna elettorale in vista del voto di sabato scorso.
Sogno Georgiano, partito di governo la cui vittoria alle urne è sempre più contestata dalle opposizioni per via di numerose segnalazioni di violenze e irregolarità, ha per esempio diffuso manifesti in cui immagini delle distruzioni in Ucraina venivano associati a strutture ed edifici ben tenuti e funzionanti con lo slogan “Scegli la pace!”.
Oppure, il leader e fondatore del partito Bizdina Ivanishvili ha dichiarato a metà settembre che il “popolo georgiano dovrebbe scusarsi con i fratelli e le sorelle ossete”.
Ma quanto hanno davvero contato tali questioni nelle elezioni e negli orientamenti di voto delle persone? Ne abbiamo parlato con Olesya Vartanyan, analista specializzata nei conflitti indipendentisti e separatisti dell’area caucasica.
Abkhazia e Ossezia del Sud sono temi entrati in campagna elettorale. Con quali effetti?
Il discorso di Ivanishvili sulla guerra del 2008 ha rappresentato un po’ un fulmine a ciel sereno. Il fatto è che, al di là di quanto le intenzioni del leader di Sogno Georgiano fossero genuine o meno, l’effetto è stato negativo: si sono prodotte reazioni di rabbia e contrarietà. Difficilmente poteva andare in modo diverso: fin dalla sua prima vittoria alle elezioni, il partito di governo aveva promesso di “costruire ponti” con Abkhazia e Ossezia del Sud e di risolvere in qualche modo la situazione, ma in dodici anni non è cambiato nulla. È normale dunque che le persone abbiano visto la sostanziale ipocrisia delle dichiarazioni di Ivanishvili.
Dall’altro lato, però, il contesto internazionale è mutato sensibilmente: nel momento in cui la Russia ha invaso l’Ucraina, è difficile pensare a concessioni da parte del Cremlino rispetto alle questioni di Abkhazia e Ossezia del Sud (che, peraltro, sono sempre più dipendenti da Mosca in termini economici e politici). Quindi, a mio modo di vedere, le persone hanno compreso quanto le parole di Ivanishvili fossero strumentali ed è per questo che hanno reagito in quel modo.
Ciò detto, esiste un timore diffuso per possibili escalation che è molto profondo, anche nelle fila dell’opposizione e fra chi partecipa alle proteste antigovernative. Se dovesse succedere qualcosa in Ossezia del Sud, il clima politico peggiorerebbe sensibilmente e il movimento che chiede elezioni libere ne uscirebbe indebolito.
Pensi che questo timore abbia spinto molti a votare per Sogno Georgiano?
In generale, nessuno in Georgia vuole la guerra. Se guardiamo la questione un po’ più da lontano c’è un elemento paradossale: negli ultimi due anni e mezzo, abbiamo visto una sempre più stretta collaborazione fra le autorità russe e quelle georgiane, le tensioni non hanno mai superato il livello di guardia e, di fatto, Mosca ha interrotto la costruzione di barriere lungo la linea del confine con le regioni separatiste (in passato, il filo spinato veniva fatto passare anche in aree densamente popolate e questo era fonte di costanti tensioni con Tbilisi).
Cosa ci dice questo? La Russia è concentrata sull’Ucraina ed è molto improbabile che voglia aprire altri fronti in Georgia. Anzi, sia che a Tbilisi si insedi nuovamente Sogno Georgiano sia che salgano al potere le opposizioni, difficilmente assisteremo a una qualche escalation nelle regioni separatiste. E' la Russia che ha in mano le leve per influenzare ed eventualmente risolvere i conflitti con le regioni separatiste e questo genera una sostanziale assenza di dibattito sul tema nella vita politica georgiana. Il sentimento prevalente nelle diverse forze politiche è proprio dettato dalla convinzione che, in un modo o nell’altro, da Tbilisi si può fare veramente poco e che la questione è essenzialmente geopolitica.
Per tutti, comunque, è chiaro che non esiste alcuna soluzione militare. Nei vari programmi lo si fa notare, e questo è un bene. Ma molto raramente si scende nel dettaglio e si avanza qualche proposta concreta, se non per misure che magari possano garantire libertà di movimento per le persone a entrambi i lati dei confini dei territori separatisti o in merito al commercio transfrontaliero e alla cooperazione economica (ed è già molto positivo!). Insomma l’approccio è soprattutto pragmatico, e i partiti stanno anche iniziando a capire che occorre isolare quelle figure che “parlano di pancia” e affermano la necessità di dover riprendere Abkhazia e Ossezia del Sud manu militari.
Un altro tema legato alle elezioni è la distanza che sembra separare i contesti urbani dalle regioni con forte presenza di minoranze etniche, dove a volte Sogno Georgiano ha preso il 90%…
Ne parlo a titolo più personale, dal momento che non ho potuto osservare lo svolgimento delle elezioni in quelle aree. Tuttavia ho una certa familiarità col contesto, provenendo da una regione a forte presenza armena. Sì, in generale esiste una “macchina statale” che in quelle zone riesce a manipolare più facilmente il voto, magari attraverso pressioni o minacce rispetto alla perdita del posto di lavoro o di sussidi statali. Ma il punto è anche che, a livello di partiti politici, nessuno si ricorda di queste regioni se non a poche settimane dalle elezioni e ciò genera sfiducia e sensazione di non essere integrati col resto della popolazione.
La maggioranza non parla georgiano e non ha un quadro chiaro degli sviluppi politici che si danno nel resto della Georgia. Soprattutto non si sentono responsabili: difficilmente si potrebbero vedere iniziative locali per presentare alle istituzioni le proprie domande e rivendicazioni, così come d’altra parte quasi nessuno si premura di interpellare gli abitanti di queste zone per capire le loro esigenze. Non c’è un rapporto sano e fruttuoso fra centro e periferia e, purtroppo, al momento manca la volontà politica per cambiare lo stato di cose.