Dopo il feroce genocidio del 2014 in Iraq, oggi la Georgia e Tbilisi in particolare stanno diventando uno dei centri di riferimento degli ezidi. Tra sfide e difficoltà, la piccola comunità cerca una sua strada per salvaguardare la propria identità. Nostro reportage
Per ora, lo spazio riservato alla memoria del genocidio del 2014 è solo una parete spoglia. Ai lati del lungo stradone che si inerpica per il quartiere Varketili, alle estremità sud-orientali di Tbilisi dove il tessuto urbano della capitale georgiana inizia a mescolarsi, quasi a confondersi, con prati brulli e giallognoli, i locali dell’unico centro spirituale e culturale del paese gestito dalla comunità ezida sono in pieno rinnovamento e costruzione.
“Qui ci sarà la sezione che raccoglie documenti e testimonianze del massacro dell’Isis”, dice il direttore del centro Pir Dima, con riferimento all’uccisione di circa cinquemila e il rapimento di oltre diecimila ezidi ed ezide da parte di fondamentalisti islamici avvenuto dieci anni fa nel nord iracheno e indicando l’angolo di un vasto stanzone a due piani in cui è in corso d’opera l’allestimento di un museo.
“Penso che sarà uno dei pochi luoghi al mondo a sistematizzare ed esporre pubblicamente la storia e i costumi del nostro popolo. Siamo una comunità piccola, ma determinata a preservare la propria identità”, dice Pir Dima.
Evoluzioni storiche
Secondo le ultime rilevazioni (che comunque sono ormai vecchie di una decade), in Georgia vivono 12mila persone che si identificano come ezide. Si tratta dei discendenti di gruppi che hanno iniziato a migrare verso l’area caucasica dall’impero Ottomano durante il 18esimo secolo, spesso spinti da persecuzioni di vario tipo, e che hanno attraversato le diverse fasi politiche dell’area, dagli zar all’attuale democrazia indipendente passando per la prima repubblica georgiana degli anni 1917-21 e l’Unione Sovietica. Esperienze che, di volta in volta, hanno anche influenzato la percezione che la comunità ezida aveva di se stessa.
“Siamo quasi sempre stati stretti fra diversi nazionalismi, come quello arabo o curdo”, afferma Pir Dima mentre ripercorre le tappe della presenza ezida in Georgia, dove lui è nato e cresciuto. “Ma, soprattutto, il processo a cui siamo esposti oggi è quello dell’assimilazione completa nelle diverse società di cui facciamo parte. Sempre più persone non si identificano più come membri della comunità e a questo si aggiunge l’emigrazione, in particolare verso la Russia e l’Europa. È un’evoluzione spontanea, che dipende da dinamiche storiche, ma è doloroso”.
Si tratta, peraltro, di un processo che interessa anche altre minoranze nazionali presenti nella repubblica caucasica, non da ultimo quella curda che è per certi versi la più “vicina” alla ezida, dal momento che condividono la lingua (il kurmanji) e una separazione netta fra i due gruppi non è pacificamente accettata da tutti.
Proprio a Tbilisi durante gli iniziali ed effimeri tre anni di indipendenza dall’Impero Russo, nel 1919, venne stabilita per la prima volta a livello mondiale un’associazione autonoma del popolo ezida, il Consiglio Nazionale degli Ezidi. Così, anche sui passaporti rilasciati dalla successiva federazione delle repubbliche socialiste la loro nazionalità rimaneva distinta da quella curda, e alcuni intellettuali si spinsero a considerare anche il dialetto generalmente parlato dagli ezidi come una lingua a sé stante.
Tuttavia, già a partire dal censimento del 1926 ma poi soprattutto con i mutamenti nelle politiche sulla nazionalità che iniziarono a tendere verso una maggiore unificazione, a livello ufficiale veniva a cadere la separazione fra i due popoli, curdi e ezidi cominciarono a confondersi maggiormente anche nel senso comune.
“Il fatto è che, per via dell’ateismo di stato dell’Unione Sovietica, l’elemento religioso non venne più considerato determinante”, spiega Pir Dima, che da questo punto di vista si sente di paragonare la comunità ezida a quella ebraica, sulla scorta dell’analoga combinazione di tradizione di fede ed etnia come tratto identitario.
“Ma è anche vero che le politiche del regime sovietico rendevano molto più semplice di ora preservare la nostra cultura: veniva promosso attivamente lo sviluppo artistico ed educativo delle nazionalità, c’era una maggiore disponibilità di fondi che poi con l’indipendenza sono venuti a mancare quasi del tutto”.
Una nuova sensibilità
È infatti con il crollo dell’Urss e la nascita dell’attuale repubblica georgiana che la questione ezida, così come quella relativa all’identità di altre comunità etno-culturali, viene sostanzialmente “messa fra parentesi” per diversi anni.
L’instabilità istituzionale e la crisi economica hanno da una parte spinto molto persone verso l’emigrazione (al crollo dell’Urss, gli ezidi in Georgia erano circa 33mila) e dall’altra relegato ai margini della politica il problema della tutela delle minoranze.
L’insicurezza sociale, poi, ha fatto il resto: nel momento in cui l’urgenza principale è quella di trovarsi un lavoro e capire come sopravvivere, l’attenzione verso la propria cultura e le proprie tradizioni comunitarie tende a passare in secondo piano.
“La situazione è cambiata attorno al 2010”, racconta ancora Pir Dima. “Alcuni membri della comunità hanno preso l’iniziativa di fondare degli spazi che potessero accogliere chi voleva preservare la propria identità etno-religiosa: così si sono formate la Casa degli Ezidi e il Consiglio Spirituale Ezida della Georgia, due istituzioni che hanno collaborato costantemente e che si sono messe in dialogo con le autorità del paese”.
Se fino al 2005 l’unica entità confessionale riconosciuta ufficialmente era la Chiesa Ortodossa Georgiana le modifiche al codice civile nel 2011 hanno concesso la possibilità anche ad altre minoranze, tra cui quella ezida, di registrarsi.
In questo contesto è potuto nascere anche il tempio e il centro spirituale diretto da Pir Dima, che sorge su un terreno di proprietà statale. “Abbiamo deciso di rendere il tempio una ‘casa del Signore’ aperta a chiunque lo voglia frequentare, anche se non si tratta di persone ezide”, prosegue Pir Dima, menzionando tra l’altro il fatto che presso la struttura nel quartiere Varketili è presente pure una facoltà di teologia ezida (l’unica al mondo). “Ma per la nostra comunità rimane importante il dovere dell’endogamia, altrimenti non riusciremmo a preservarci”.
La situazione globale
Forse, non è così azzardato dire che la Georgia e nello specifico la capitale Tbilisi (dove vive il grosso della comunità) sta diventando uno dei maggiori centri del popolo ezida a livello globale.
La situazione in Iraq del nord, tradizionale luogo del loro radicamento, è estremamente peggiorata in seguito al già citato genocidio del 2014, evento che tra l’altro ha reso la comunità maggiormente nota presso la comunità internazionale.
In un recente articolo , lo studioso Majid Hassan Ali spiega che nel Sinjar e nella Piana del Ninive “nonostante la sconfitta dell’Isis avvenuta nel 2017, non ci sono ancora condizioni sufficienti per una stabilità e un ritorno a una vita normale”, menzionando esplicitamente la minaccia di una “graduale scomparsa” della presenza ezida dalla regione.
Per sfuggire al massacro, diverse persone nel corso degli ultimi dieci anni sono arrivate dall’Iraq anche in Georgia ma pare che la quasi totalità dei profughi abbia poi proseguito per l’Europa o altri luoghi.
Nonostante le difficoltà di inserimento e le scarse opportunità lavorative, il Caucaso offre comunque una maggiore protezione e sicurezza. Con il centro educativo e culturale, la facoltà di teologia e il tempio in zona Varketili, infine, si aprono pure possibilità di salvaguardare la propria identità e coltivare la propria fede in un’ottica comunque – riassume Pir Dima – di buoni rapporti con le autorità centrali e di rispetto della laicità dello stato.
Per come appare in questo momento, il luogo sembra quasi una metafora della condizione dalla comunità ezida tutta: un po’ appartato rispetto al resto della città, ma in continua costruzione e rinnovamento, comunque teso a conservare una cultura e una storia che sono ancora “in marcia”.