Dato Vanishvili - foto di Matteo Zola

Dato Vanishvili - foto di Matteo Zola

Viaggio alla frontiera tra Georgia e Ossezia del Sud, dove il confine si sposta come un essere vivente, e la gente non può che adeguarsi

18/10/2016 -  Emanuele Cassano Khurvaleti

La strada per il villaggio di Khurvaleti costeggia le colline dorate che in estate caratterizzano le campagne della Georgia centrale, ma non ci mettiamo molto a scoprire come dietro a questo paesaggio bucolico si nasconda ben altro. Percorrendo la stradina sterrata che porta al villaggio ci imbattiamo in un posto di blocco presidiato da militari georgiani. Ci fanno scendere dall’auto, armi in pugno, alcuni sono ancora ragazzi, chiedono i documenti: “Non si può proseguire qui siamo in una zona di guerra”.

A pochi chilometri ci sono i territori occupati, Khurvaleti si trova lì. Dopo mezz’ora di contrattazioni, qualche telefonata a Tbilisi, i militari decidono finalmente di farci passare, scortandoci nella terra di nessuno fino a una piccola collinetta dove si srotola una voluminosa linea di filo spinato. Al di là di quest'ultimo un grande cartello, con la scritta "Confine di stato". In realtà un confine de-facto.

Vite precarie

Khurvaleti, piccolo villaggio di contadini, è tagliato in due proprio da questo filo spinato. Da anni i suoi abitanti sono costretti a convivere con il progressivo spostamento della linea di confine da parte delle forze russo-ossete, che dal 2008 hanno guadagnato diversi chilometri di territorio. Questa occupazione strisciante ha portato le forze separatiste a inglobare nel tempo case e terreni appartenenti a contadini georgiani, nonché a lambire la principale autostrada del paese e a minacciare direttamente alcuni villaggi. Di solito l’avanzamento dei confini avviene di notte, dopo aver dato qualche giorno di tempo ai contadini locali per lasciare i propri campi e portare con sé l’eventuale bestiame. Chi si rifiuta di abbandonare i propri possedimenti rischia di ritrovarsi da un giorno all’altro dall’altra parte del filo spinato.

Il "confine di stato" -  foto Matteo Zola

Il "confine di stato" - foto Matteo Zola

Dato Vanishvili, un anziano agricoltore residente lungo la linea di confine, nonostante le minacce ricevute, non ha mai voluto lasciare la propria fattoria, luogo dove è nato e cresciuto. Una mattina come tante, dopo essersi svegliato, ha fatto una scoperta scioccante: la sua casa era finita dall’altra parte del confine, e alcuni soldati russi stavano sistemando il filo spinato tutto intorno alla sua proprietà. Dato si è così ritrovato all’improvviso tagliato fuori dal suo villaggio e dal suo paese, con i suoi terreni e il suo bestiame rimasti dall’altra parte della recinzione. “Non posso più fare ritorno in Georgia, il confine è chiuso” e non avendo documenti validi per viaggiare in Ossezia, dove rischierebbe l’arresto, è costretto a vivere in questa sorta di limbo. La pensione, che riceve dalla Georgia, non può più ritirarla.

Dato non ha più contatti l’esterno. “Mio nipote mi veniva a trovare ogni tanto, dall’altra parte del filo spinato, mi passava qualcosa attraverso la recinzione metallica”, ma le guardie russe al confine se ne sono accorte: “Hanno detto che ci uccidevano tutti e due se ci vedevano ancora lì”, e il nipote non è più potuto venire. Dato vive così, da solo, senza luce elettrica né acqua corrente, sorvegliato dagli agenti russi, vittima di una guerra che non è mai finita davvero.

Giorgi, un altro residente di Khurvaleti, abita a pochi passi dalla casa di Dato, ma dalla parte georgiana del confine. Dopo una vita passata a Tbilisi, ha perso il lavoro a causa della crisi economica, e non è più stato in grado di pagare il suo appartamento nella capitale, decidendo di andare ad abitare nell’unica casa lasciatagli in eredità dalla famiglia, situata proprio ai piedi del filo spinato. Qui Giorgi vive come può, lavorando il proprio piccolo pezzo di terra, unica fonte di sostentamento. Ma alla domanda se il progressivo spostamento del confine lo preoccupa, lui risponde con sicurezza: “Non ho paura” ma, spiega, “non riesco a trovare moglie, hanno tutte paura di svegliarsi una mattina dall’altra parte del filo spinato”.

Osseti al di qua del confine

Mappa - foto di Matteo Zola

Mappa - foto di Matteo Zola

A Tsitelubani, piccolo villaggio situato a un paio di chilometri da Khurvaleti, quasi il 90% della popolazione è invece osseta. Natia Khugayeva, 75 anni, vive qui da quando è nata. All’inizio degli anni Novanta, con l’indipendenza della Georgia, ha deciso di modificare il suo cognome osseto, Khugayev, aggiungendovi un suffisso georgiano, per far fronte alle politiche nazionaliste del presidente Gamsakhurdia.

In seguito alla guerra del 2008, come molti altri osseti del villaggio di Tsitelubani, la famiglia di Natia ha deciso di rimanere nel suo paese natale per non perdere la casa e i propri terreni, rimasti nel territorio controllato dalla Georgia. Attualmente le uniche fonti di reddito per gli abitanti di Tsitelubani sono l’agricoltura e l’allevamento, perciò chi non possiede un pezzo di terra o qualche capo di bestiame è costretto a migrare nella capitale in cerca di fortuna. Chi ha provato a fare ritorno in Ossezia ha dovuto invece scontrarsi con la burocrazia: per chi è in possesso di un passaporto e un cognome georgiano i tempi di rilascio di un visto russo si dilatano.

Gli osseti di Tsitelubani sono bloccati in questa situazione e sembrano avere ormai perso la fiducia nei confronti del governo georgiano, dal quale si sentono abbandonati.

L'occupazione silenziosa

Spostando nottetempo il filo spinato, la Russia procede nell'occupazione del territorio georgiano. E' un'occupazione silenziosa, quasi impercettibile, che procede con lentezza, inglobando case, villaggi, persone. Un'avanzata cui le autorità georgiane non possono opporsi. Rispondere alle provocazioni di Mosca può costare caro, il timore è che possano riprendere le ostilità, che il conflitto si riaccenda.

"La Russia non aspetta altro", ci dicono i militari georgiani mentre ci scortano verso un altro punto del confine "mobile" che separa l'Ossezia meridionale dal resto della Georgia: si tratta di una piccola chiesa, non lontano dall'abitato di Tsiletubani. Il confine la taglia in due, in territorio georgiano la navata, in quello osseto l'altare. Non c'è filo spinato, solo un cartello che ricorda che l'accesso è consentito solo ai residenti. Ennesimo simbolo di una terra ferita.