Mercoledì 2 settembre un somalo di 40 anni è risultato positivo al coronavirus nel campo di Moria, a Lesbo. Le ong temono una catastrofe umanitaria e invitano le autorità a evacuare il campo, dove 13mila persone vivono ammassate l’una sull’altra in condizioni precarie
(Pubblicato originariamente da Le Courrier des Balkans il 3 settembre 2020)
È successo quello che i difensori dei diritti umani e le autorità locali temevano da mesi. Mercoledì 2 settembre nel campo di Moria, a Lesbo, è stato registrato il primo caso di contagio da coronavirus. Si tratta del più grande campo profughi d’Europa, dove circa 13mila richiedenti asilo vivono in condizioni disumane.
Lo scorso mercoledì un somalo di 40 anni è stato trasportato all’ospedale di Mitilene. Le sue condizioni sono stabili, ma a causa di un problema al fegato e diabete di cui soffre, è vulnerabile alle complicazioni da Covid-19, per cui deve essere monitorato da vicino. Dopo aver ottenuto lo status di rifugiato, lo scorso 17 luglio l’uomo ha lasciato l’isola di Lesbo ed è andato ad Atene. Non riuscendo però a trovare lavoro né una sistemazione nella capitale, è tornato sull’isola, dove dormiva in un uliveto, all’esterno delle mura di cinta del campo migranti, dove i nuovi arrivati sono ammassati in capanne e tende, senza che vengano rispettate le minime norme igieniche.
“Non ci sono abbastanza bagni e docce, né l’accesso all’acqua”, ricorda Evelien von Roemberg, responsabile della campagna europea per le migrazioni di Oxfam. “Senza un intervento drastico e immediato, questa situazione potrebbe sfociare in una devastante crisi sanitaria e provocare la morte di centinaia di persone già indebolite”. L’ong Oxfam sottolinea che nel campo di Moria 160 persone sono costrette a condividere lo stesso bagno, e più di 500 la stessa doccia. In alcune parti del campo oltre 300 richiedenti asilo si servono dello stesso rubinetto, senza sapone a disposizione.
“L’attuale situazione è conseguenza dell’inerzia dei governi che si sono succeduti nel tempo, che per anni hanno ignorato gli avvertimenti sulle condizioni pericolose negli hotspot ai confini d’Europa”, aggiunge von Roemberg.
Il campo di Moria è in lockdown dallo scorso 21 marzo; i rifugiati possono uscire solo se in possesso di un’autorizzazione. Gli autobus per la città di Mitilene sono quasi inesistenti. Molte ong, come Medici senza frontiere e Amnesty International, hanno più volte denunciato la situazione nel campo, definendo il prolungamento delle restrizioni come una misura “ingiusta” e “discriminatoria”, dato che il paese è uscito dal lockdown e le frontiere sono state riaperte per i turisti.
Accanto alle misure restrittive già esistenti, dopo il primo caso di coronavirus registrato a Moria il ministero delle Migrazioni greco ha deciso di mettere in quarantena l’intero campo fino al prossimo 15 settembre. Le uscite non saranno più consentite, solo gli addetti alla sicurezza potranno accedere al campo dopo il controllo della temperatura corporea all’ingresso. L’International Rescue Committee (IRC) ormai da mesi chiede una “evacuazione urgente dei rifugiati più vulnerabili” dal campo di Moria. “Il distanziamento sociale e le misure igieniche di base, come il lavaggio regolare delle mani, non possono essere rispettate a Moria”, spiega Dimitra Kalogeropoulou, direttrice di IRC in Grecia.
“Molte persone possono non presentare alcun sintomo ma essere comunque portatori del virus”, aggiunge Kalogeropoulou. “Bisogna urgentemente aumentare le capacità e i servizi sanitari, garantire spazio sufficiente per mettere le persone in quarantena. La clinica di MSF, dove potevano essere isolati i malati, è stata costretta a chiudere a giugno, dopo una disputa riguardante il terreno su cui sorgeva. Il governo olandese ha finanziato la costruzione di una nuova clinica che è stata inaugurata lo scorso 20 agosto, ma non è ancora operativa […] Nel mese di agosto sono stati registrati altri cinque casi di coronavirus nel campo di Vial, sull’isola di Chios, ma i contagiati non presentano sintomi gravi. Anche questo campo è stato messo in quarantena”, spiega Kalogeropoulou.
Secondo Natalia-Rafaella Kafkoutsou, avvocata presso il Consiglio greco per i rifugiati (GCR), “dopo sei mesi di pandemia, il piano d’urgenza disegnato dal governo greco è lontano dall’essere sufficiente per proteggere i richiedenti asilo, il personale impiegato nei campi e la popolazione delle isole. Il piano è focalizzato solo sulle restrizioni al movimento delle persone, senza un’adeguata risposta preventiva. A Moria tutte le persone dovrebbero essere sottoposte a test e i positivi dovrebbero essere immediatamente messi in isolamento”.
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