L'ipotesi di un referendum in Grecia sul pacchetto di salvataggio approvato dall'UE, lanciata nei giorni scorsi dal premier Papandreou è presto tramontata. La questione del dialogo democratico tra élite europee e cittadini sulle risposte alla crisi rimane però sul tavolo. Se l'Unione non può permettersi il crollo della moneta unica, senza democrazia non ha futuro. Un commento
Nei giorni scorsi, nel cielo tempestoso della Grecia era apparsa, improvvisa e inaspettata, una cometa. Per alcuni foriera di speranza e catarsi politica e sociale, per molti presagio di ulteriori e più gravi sventure economiche. Alla fine, però, la cometa del referendum popolare sul nuovo pacchetto di salvataggio economico, annunciato dal premier socialista (Pasok) George Papandreou come atto di “democrazia e patriottismo” per dare voce al popolo greco sul destino del Paese, e avversato dai suoi oppositori come irresponsabile e letale bizantinismo politico, si è eclissata tanto velocemente quanto era comparsa, dopo appena un giorno ed una notte.
L'annuncio di Papandreou di tenere la consultazione aveva colto tutti di sorpresa, sia in Europa che nella stessa Grecia, scuotendo i mercati e dividendo le opinioni pubbliche. Ieri, altrettanto repentino e imprevedibile, il dietrofront del premier greco, che in serata ha dichiarato che il contestato referendum non ci sarà. “La questione non è mai stata il referendum, ma capire se siamo o meno pronti ad approvare le decisioni prese al summit europeo del 26 ottobre”, ha dichiarato in serata Papandreou.
Alla base del ripensamento ci sarebbe l'accordo raggiunto con Nuova democrazia di Antonis Samaras, principale partito d'opposizione, che ha accettato di appoggiare le misure del pacchetto di salvataggio, assumendosi così parte della responsabilità politica del doloroso accordo (vedi box). Sulla decisione pesano poi la rivolta interna al Pasok, guidata dal ministro delle Finanze Evangelos Venizelos, secondo cui “l'euro è una conquista storica del popolo greco che non può essere messa in discussione" in nessun modo, nemmeno dal voto popolare, ma soprattutto il clima di forte scetticismo verso il referendum espresso a livello europeo e internazionale.
La coppia Merkel-Sarkozy, sempre più “direttorio semi-ufficiale” dell'Unione europea, aveva avvertito: se ci sarà referendum, la posta in gioco non sarà il pacchetto di salvataggio, ma la permanenza di Atene nell'Eurozona. Anche il pagamento della sesta tranche del primo pacchetto di salvataggio, necessaria a tenere a galla i conti pubblici greci nei prossimi mesi, veniva messa in quarantena in attesa dell'eventuale risultato referendario.
Nonostante il dietrofront sulla consultazione popolare, la situazione politica in Grecia rimane altamente volatile. Oggi il governo Papandreou è atteso da un voto di fiducia su cui è difficile fare pronostici, vista la spaccatura interna del partito socialista. Anche se dovesse farcela, Papandreou sembra aver esaurito il proprio capitale politico e con buona probabilità darà le proprie dimissioni per permettere la formazione di un governo di unità nazionale ed evitare immediate nuove elezioni politiche e rinnovato caos politico, lo scenario più temuto.
Secondo Papandreou la mossa del referendum, seppur abortita, avrebbe portato i risultati sperati: la creazione di uno “shock creativo” che potrebbe portare alla formazione di un esecutivo dalle larghe intese con Nuova Democrazia. Difficile dire quanto di vero si nasconda nelle affermazioni del premier socialista, anche perché i motivi reali che lo hanno portato alla mossa inaspettata del referendum restano oscuri e soggetti ad interpretazioni contrastanti.
Anche se fosse davvero stata soltanto una mossa spettacolare e azzardata, ma priva di reale volontà politica e tesa soprattutto alla ricerca di alchimie politiche di breve respiro (nella tempesta della crisi l'élite greca non è certo la sola a navigare a vista), le questioni aperte dall'annuncio del referendum restano sul tavolo e turbano i sonni dell'Europa anche dopo il suo veloce tramonto.
Le misure approvate lo scorso 26 ottobre sono l'ennesima conferma che, nella migliore delle ipotesi, i greci si trovano di fronte ad almeno un decennio di tagli alla spesa, bassa crescita, perdita sostanziale della propria sovranità nazionale. E' difficile pensare che un progetto di risanamento così profondo ed invasivo, in grado di condizionare i destini di almeno una generazione, possa reggere senza il supporto di parte sostanziale dei cittadini ellenici.
Si può discutere se il referendum popolare, esercizio di democrazia spesso ostaggio delle passioni del momento, fosse il mezzo più adatto per far esprimere i cittadini ellenici su temi tanto gravi e complessi. In Grecia, tra l'altro, c'è poca dimestichezza con lo strumento referendario, visto che nella storia recente del Paese l'unica consultazione popolare risale al 1974, quando i cittadini optarono per la repubblica al posto della monarchia costituzionale.
Il problema di una scelta condivisa e democratica del proprio destino però resta, e il temporaneo consolidamento della screditata élite politica ellenica, che buona parte dei greci ritiene la principale responsabile del disastro in cui il Paese si è cacciato, non è una soluzione durevole, nonostante i generalizzati sospiri di sollievo per la cancellazione del referendum.
A Berlino e Bruxelles in molti sembrano convinti che l'unica via d'uscita sia quella del rigore a tutti i costi, sorta di “igiene morale” di un sistema malato e unico farmaco in grado di risanare un paziente ormai in coma profondo. La possibilità che i greci potessero mettere democraticamente in discussione la bontà della cura (forse anche memori del fatto che “phàrmakon”, in greco, significa sia medicina che veleno, e che la differenza è tutta nella dose) è stata letta come un rischio troppo grande per poter essere corso.
Al di là delle considerazioni immediate, il segnale non è affatto positivo. Vista la situazione di incertezza generalizzata e le dimensioni della crisi, la questione di scelte economiche e sociali sempre più dolorose e della ricerca di una nuova forma di condivisione tra rappresentanti politici e cittadini si ripresenterà presto in altri paesi dell'Unione europea (Portogallo, Spagna e Italia in primis) e in definitiva a livello comunitario. Sul medio periodo (e la crisi si prospetta ancora lunga) non tenere conto del parere dei cittadini, sarà sempre più difficile e meno difendibile.
In un'Unione europea sempre più in preda alla paura del futuro, i politici si comportano sempre più come assicuratori impegnati a limitare i rischi che come leader in grado di proporre una visione e nuovi modelli per il futuro. Anche il vecchio refrain secondo cui “l'Europa è sempre uscita più forte e unita dalle crisi” è divenuto ormai soprattutto una formula di scongiuro, a cui nessuno sembra più credere davvero.
Dare la parola ai cittadini europei sul proprio futuro, col referendum o meno, è certamente un rischio e forse è vero, come sostiene Sarkozy, che l'Ue senza Euro è destinata a crollare. Una prospettiva che, comprensibilmente, spaventa tutti. E' altrettanto vero, però, che l'Europa senza democrazia non ha alcun senso.
L'idea che uscire dalla crisi senza prendere rischi sia possibile è una pericolosa illusione. I politici europei non dovrebbero scansarli, ma affrontarli insieme ai cittadini che li hanno democraticamente eletti. La libertà di scelta, base della democrazia, comporta per definizione il rischio di fare scelte sbagliate. Di fronte al dilemma fondamentale, quello di dare o meno sostanza politica (e democratica) all'unione monetaria, l'Unione europea sembra però voler correre un rischio ancora più alto: continuare a non scegliere.