La Grecia è sempre più oppressa dalla crisi economica, che rischia di trasformarsi anche in stallo politico. Oggi il parlamento greco vota la fiducia, chiesta dal premier George Papandreou dopo il rimpasto di governo, sulle politiche di austerità che spaccano il Paese. Sul parlamento di Atene puntati gli occhi di tutta Europa
Niente regali per la Grecia. Se Atene vuole ottenere l'ultima trance del mega-prestito di salvataggio di 110 miliardi di euro, approvato nel maggio 2010 per tentare di tenere a galla le finanze pubbliche dello stato ellenico, deve dimostrare di essere in grado di andare avanti nella politica di austerità, nonostante il pericoloso assottigliarsi della base di consenso politico e sociale del governo Papandreou. E' questa, in sostanza, la decisione interlocutoria presa lunedì 20 giugno dai ministri delle finanze dell'Eurozona, riuniti a Lussemburgo.
Prima di firmare l'assegno da 12 miliardi di euro (a tanto ammonta la rata tenuta in sospeso, di cui 8 a carico dei paesi dell'Eurozona e 4 del Fondo Monetario Internazionale) i ministri europei vogliono infatti assicurarsi che il governo Papandreou sia in grado di reggere al terremoto sociale che sta accompagnando l'interminabile crisi greca, e di far approvare entro la fine del mese ulteriori 28 miliardi di euro di tagli alla spesa pubblica (per il triennio 2012-15), a cui dovrebbero essere affiancate ulteriori privatizzazioni in grado di rimpinguare le disastrate casse di Atene.
Se approvato, il prestito dovrebbe andare in porto intorno alla metà di luglio. Anche in questo caso però, secondo molti analisti, il denaro incassato servirebbe a dare ossigeno alla Grecia soltanto fino a settembre. Per il momento l'unico obiettivo strategico perseguito sembra quello minimo: guadagnare un po' di tempo. Al pari del contante, però, anche il tempo a disposizione sembra ormai ridotto al lumicino.
Nel frattempo, continua a livello europeo il dibattito sul nuovo piano di salvataggio (bailout) di dimensioni almeno equivalenti a quelle del precedente (si parla di 120 miliardi) che dovrebbe dare altri tre anni alla Grecia per stabilizzare l'economia e trovare la forza per tirarsi fuori dal vortice della crisi.
Nei mesi scorsi la cancelliera tedesca Angela Merkel ha insistito per una sostanziale ristrutturazione del debito greco: in parole semplici, i creditori privati di Atene avrebbero dovuto accettare l'ipotesi di non vedersi restituita buona parte dei prestiti accordati. Di parere opposto la Banca centrale europea, preoccupata dal rischio “contagio”. Se oggi ristrutturiamo il debito greco, è il ragionamento della BCE, gli investitori, oltre a perdere soldi, correrebbero a vendere i titoli pubblici di altri Paesi in bilico, come Portogallo, Irlanda e Spagna, per paura di subire nuove perdite. Cosa succederebbe allora?
Oggi la Merkel ha ammorbidito le proprie posizioni, si è riavvicinata a quelle della Francia ed ha accettato il fatto che i privati, nel nuovo piano di salvataggio, possano partecipare esclusivamente “in forma volontaria”. Un accordo definitivo, però, ancora non è stato trovato e dovrebbe essere raggiunto il prossimo 11 luglio.
Papandreou alla prova del voto di fiducia
Tutti i conti, però, vanno fatti con l'oste. I vari piani di salvataggio presentati partono da un presupposto: la Grecia deve continuare e approfondire la propria politica di austerità, tagliando con l'accetta pezzi del suo welfare state, e non solo. Lo spazio politico del governo Papandreou, però, sembra essersi drasticamente ridotto col passare dei mesi.
Dopo lo sciopero generale del 15 giugno, sfociato in violenti scontri in piazza Syntagma, di fronte al parlamento di Atene, il premier ha annunciato un rimpasto di governo, nel tentativo di serrare le fila del partito socialista (PASOK) in vista dell'approvazione dell'ennesimo pacchetto austerità.
Papandreou, aveva prima esplorato la possibilità di un governo di unità nazionale, offrendo le proprie dimissioni per convincere il principale partito di opposizione, i conservatori di Nuova democrazia, guidati da Antonis Samaras, ad assumersi parte l'enorme peso politico delle decisioni che aspettano Atene nelle prossime settimane. Samaras ha però rifiutato l'accordo, sostenendo che “il PASOK ha perso la fiducia dei cittadini greci e del mercato”, e chiedendo elezioni anticipate.
Papandreou ha quindi deciso di sacrificare il ministro delle Finanze, George Papaconstantinou, ritenuto l'architetto delle politiche di austerità e dopo aver corteggiato invano l'ex vice presidente della BCE Lucas Papademos, ha nominato al suo posto Evangelos Venizelos. Venizelos “pezzo grosso” del PASOK, è stato in passato un serio sfidante dello stesso Papandreou alla leadership del partito. La mossa del premier, sembra quindi soprattutto dettata dalla necessità di ricompattare la sua maggioranza che, sotto l'enorme pressione popolare, ha iniziato a perdere pezzi (è oggi assestata a 155 parlamentari su 300) e a scricchiolare pericolosamente.
Nella sua lotta per mantenere il timone, Papandreou ha poi proposto un referendum costituzionale, attraverso il quale curare i mali di un sistema “malato di mancanza di meritocrazia e trasparenza nel settore pubblico”. Tra le proposte, quella di diminuire il numero dei parlamentari, abolire l'immunità e riorganizzare il sistema elettorale.
Resta da vedere se tutto questo sarà sufficiente a passare lo scoglio del voto di fiducia chiesto da Papandreou, che verrà esaminato oggi dal parlamento di Atene.
Fine della pazienza
Il governo greco forse riuscirà ad uscire indenne dal voto di fiducia. La sfida più seria a Papandreou non arriva però dall'aula del parlamento, ma dalla piazza che lo fronteggia. Piazza Syntagma (letteralmente, piazza della Costituzione), fino a ieri “salotto buono” della capitale greca, dallo scorso 25 maggio è divenuta il centro simbolico della protesta contro le misure del governo.
Qui migliaia di “indignati”, seguendo l'esempio dei cittadini spagnoli, protestano ogni giorno al grido di “ladri!”, rivolto ai propri rappresentanti politici. Se la rabbia ha un simbolo, questo è sicuramente rappresentato dal volto paffuto del socialista Theodoros Pangalos, appena confermato vice premier da Papandreou.
Nel settembre 2010, Pangalos, parlando davanti alle telecamere delle cause della crisi, si era così rivolto ai propri concittadini “Amici miei, [i soldi] li abbiamo mangiati tutti insieme”. In altre parole: tutti siamo responsabili del disastro, e quindi tutti dobbiamo pagarne il prezzo.
Il popolo degli “indignati” greci, però, la pensa diversamente. Domenica 19, per la quarta domenica di fila, decine di migliaia di persone hanno riempito piazza Syntagma. “La povertà è la peggiore delle violenze”, recita uno dei cartelloni mostrati dai manifestanti. Le proteste potrebbero toccare l'apice proprio oggi, durante la discussione e il voto di fiducia in parlamento. E manifestazioni simili sono previste nelle strade di tutto il Paese.
Se ci fossero ancora dubbi sull'umore dei greci, un recente sondaggio, pubblicato dal quotidiano To Vima basterebbe a fugarli. Il 47,5% degli intervistati si è detto contro le misure di austerità del governo, contro il 34,8% che si è dichiarato a favore ( il 17,7% ha rifiutato di rispondere).
La Grecia fuori dall'euro?
A rafforzare la rabbia della gente, la sensazione che le misure di austerità si siano rivelate inefficaci, oltre che dolorose. Secondo l'economista Yanis Varoufakis, intervistato dal quotidiano britannico “The Guardian”, l'austerità ha portato l'economia greca allo stallo completo.
“L'anno scorso in Grecia 50mila ditte hanno chiuso i battenti, la produzione industriale è crollata del 20% e scenderà di un altro 12% quest'anno”, ha dichiarato Varoufakis. Cifre che parlano di grave recessione, a cui si lega il peggioramento delle finanze pubbliche. Il debito greco, nel frattempo, ha raggiunto la cifra record di 360 miliardi di euro, pari a circa il 150% del Pil, mentre la disoccupazione colpisce ormai il 16% della popolazione.
In un contesto così turbolento, in Grecia più di qualcuno inizia a chiedersi se non esista una via meno dolorosa di quella prospettata dal governo e dall'Ue: dichiarare il fallimento, abbandonare la moneta unica e tornare alla dracma.
L'esempio da seguire sarebbe quello dell'Argentina, che dopo la crisi del 2001-2002 (durante la quale il Pil del paese sudamericano subi un crollo spaventoso), riuscì a rimettere in carreggiata l'economia reale dopo essersi sganciata dal dollaro americano. Da allora l'economia argentina è cresciuta al ritmo del 7,4% (dati Fmi), e Buenos Aires ha impiegato appena tre anni per superare i livelli pre-crisi.
In confronto, il piano di rianimazione dell'economia greca appare grigio. Secondo il Fondo monetario, Atene dovrebbe ripartire il prossimo anno, ma allo stentato tasso del 2% annuo.
“Una decisione del genere, bancarotta e abbandono dell'euro, rischierebbe di provocare una crisi sistematica in tutto il settore finanziario europeo, a causa dell'enorme esposizione delle banche (soprattutto tedesche e francesi) nei confronti del debito greco”, scrive il Wall Street Journal.
I rischi legati ad una “scappatoia alla greca” sembrano elevati ma, paradossalmente, lo sono forse più per gli altri Paesi dell'Eurozona (e per il destino della moneta unica, a cui nel frattempo, questa settiman il settimanale tedesco "Der Spiegel" si è affrettato a celebrare un mesto funerale) che per la stessa Grecia. Motivo per cui, ancora per molte settimane, gli occhi di tutti resteranno puntati sulle istituzioni e sulle piazze “indignate” dell'Ellade.