Sono circa 3.000 i rifugiati sull'isola greca. Attendono che le loro domande d'asilo vengano prese in esame. Secondo l'UNHCR il 55% di loro sono donne e bambini. Reportage, prima parte
Il profilo dell'isola si staglia in controluce e lentamente cresce, mentre il battello fende le acque blu e solleva alti spruzzi che arrivano fin sul ponte. Tra la costa turca e l'isola greca, una striscia di mare di pochi chilometri, spazzata dal vento intenso che increspa le onde e le corona di spuma. La bellezza innegabile del paesaggio stride con l'idea di acque divenute la tomba centinaia di persone in fuga.
All'arrivo al porto si procede con il controllo dei documenti: l'annoiata polizia di frontiera greca sbriga il lavoro di routine sotto l'occhio vigile di un membro di Frontex, l'agenzia europea per la vigilanza dei confini. Il confine d'Europa è racchiuso in un dimesso edificio scarno, avere un passaporto europeo rende tutto poco più che una formalità, perché certe barriere sono intangibili per alcuni, insormontabili per altri.
Alla fonda nell'ampio porto non ci sono solo barche da pesca e yacht, ma anche numerose navi della guardia costiera e gommoni di salvataggio provenienti da tutta Europa. Su tutte sventola la bandiera greca insieme ai colori dei rispettivi paesi: Gran Bretagna, Romania, Olanda, Portogallo, tutta l'Europa pare schierata al confine.
In un bar affacciato sul porto raggiungiamo la prima persona che ci aiuterà a chiarire la situazione sull'isola, soprattutto alla luce dell'accordo tra Unione europea e Turchia sulla crisi migratoria: Katerina Kitidi, rappresentante dell'UNHCR per la Grecia.
Chios ospita al momento circa 3.000 rifugiati in attesa che le domande d'asilo vengano prese in esame e, secondo i dati UNHCR, oltre il 55% di questi sono donne e bambini. I rifugiati sono distribuiti tra le due aree di accoglienza, Souda e Dipethe, entrambe nel centro cittadino di Chios, praticamente alle spalle del palazzo comunale, ed il centro di registrazione di Vial, che invece è ad una decina di chilometri fuori città.
L'isola ha visto i primi arrivi nell'agosto dell'anno scorso e raggiunto l'apice tra ottobre e novembre, quando si contavano oltre 300 arrivi ogni giorno. Ad oggi, gli arrivi sono invece sensibilmente diminuiti: ci sono giorni senza alcuno sbarco, altri che vedono l'arrivo di 40-50 persone.
Secondo la Kitidi, sono due i fattori che hanno avuto maggior impatto sul flusso di rifugiati lungo la rotta balcanica: la chiusura del confine greco macedone e l'aumento della sorveglianza costiera nei tratti di mare tra Grecia e Turchia. Questo poiché chi è in viaggio conosce la situazione lungo le varie rotte migratorie grazie al passaparola e all'uso dei social media. Questi due interventi hanno di fatto congelato il flusso migratorio, che in questo momento cerca altre strade da percorrere. Non ci sono al momento dati su un significativo spostamento della rotta migratoria verso l'Albania, mentre si registrano i primi sbarchi verso le coste italiane calabresi e pugliesi.
Bloccati sull'isola
Nei centri di accoglienza le tensioni più forti si sono avute tra fine marzo e inizio aprile, subito dopo l'accordo UE-Turchia, perché i rifugiati hanno subito capito quale fosse per loro l'immediata conseguenza: non potersi più muovere dalle isole.
Fin dai primi giorni, il centro di registrazione si è dimostrato inadeguato per gestire la mole di persone in tempi certi e brevi. Con una capacità di circa 1.100 persone, il centro si è ritrovato ad ospitarne anche 1.800. A quel punto i rifugiati hanno abbandonato in massa il centro e occupato per due settimane il porto, chiedendo a gran voce che venissero loro rilasciati i documenti necessari per proseguire il viaggio in Europa, che consideravano un loro diritto, mentre considerano la residenza forzata sull'isola, da cui non possono allontanarsi, una violazione ed un sopruso.
Due settimane prima della nostra visita, un gruppo di migranti di origine siriana ha di nuovo protestato duramente nel campo di Souda, prima con uno sciopero della fame, poi dando fuoco ad alcune strutture.
Normative per ottenere l'asilo
Le normative attuali prevedono che un migrante abbia diritto ad avere la sua domanda di asilo registrata entro 25 giorni dal suo arrivo, durante i quali deve restare all'interno del centro di registrazione. Il problema vero è il periodo successivo: al rifugiato è consentito lasciare il centro ma non l'isola, i tempi lunghi dell'elaborazione delle domande costringono i rifugiati a restare bloccati per mesi senza alcuna garanzia né sulle tempistiche né sull'esito della domanda. Nel frattempo, la continua precarietà della situazione ed i vincoli imposti dallo status di richiedente asilo impediscono di cercare lavoro, iscriversi a scuola o fare altro che non sia aspettare.
Secondo la Katidi, al momento ci sono soltanto tre vie legali per ottenere l'asilo. Il ricongiungimento familiare, che ha requisiti strettissimi e riguarda essenzialmente i minori.
Il sistema di ricollocamento europeo previsto dall'accordo del marzo scorso, che però riguarda soltanto alcune nazionalità specifiche, come ad esempio siriani e iracheni. Gli afghani invece ne sono esclusi, pur essendo il loro un paese in evidente stato di guerra. L'ultima possibilità è essere accettati come rifugiati dalla Grecia stessa: in questo modo è per il rifugiato possibile viaggiare anche verso altre nazioni europee, ma con il limite di permanenza negli altri paesi di massimo 3 mesi.
Ciò su cui più insiste al momento l'UNHCR è l'applicazione rigida delle tutele nel corso e dopo la procedura di richiesta di asilo, come ad esempio il diritto di appello. L'esistenza di canali legali ed agibili per raggiungere l'Europa è l'unico modo per garantire il rispetto dei diritti e allontanare queste persone dal circuito dell'illegalità gestito dai trafficanti.
Con le idee un po' più chiare sulle dimensioni del fenomeno, ci apprestiamo quindi a visitare il principale dei campi di accoglienza, quello di Souda.
- Continua