Il concilio pan-ortodosso svoltosi a Creta nel giugno scorso ha registrato molte defezioni tra cui quella della Chiesa ortodossa russa che sta tessendo in questi anni una geopolitica ‘confessionale’ in collaborazione col Vaticano
Il 19 giugno scorso, giorno di Pentecoste, sull’isola di Creta un centinaio tra vescovi e prelati ortodossi, in rappresentanza di una miriade di chiese autocefale, si sono radunati nell’antico monastero di Gonia obbedendo all’ordine di Bartolomeo I, patriarca ecumenico di Costantinopoli. Era da più di mille anni che non accadeva un evento simile: un concilio ortodosso capace di riunire i rappresentanti di ben 14 chiese, tutte gelose della propria autonomia. Forse troppo gelose, tanto che alla fine sono arrivate le defezioni, solo quattro in tutto, ma tali da minare alle fondamenta il concilio stesso. L’assenza più pesante è stata quella della Chiesa russa , preceduta da quella bulgara, georgiana e antiochea: a conti fatti, il 70% dei fedeli ortodossi non era rappresentato al concilio. Anche i serbi sono rimasti indecisi fino all’ultimo momento, risolvendosi infine per la partecipazione. Le ragioni che stanno dietro a queste defezioni, come pure il concilio stesso, sono politiche più che liturgiche. Non deve stupire, nel mondo ortodosso è in atto un doppio movimento: uno interno – alla ricerca di unità – e uno esterno, che ha come obiettivo la fine dello scisma con la Chiesa cattolica e la risoluzione dei conflitti in Siria e Ucraina.
La lotta per il potere
La ricerca di unità è un obiettivo ambizioso che passa, giocoforza, dall’individuazione di un leader. La Chiesa ortodossa russa, guidata dal patriarca Kirill, è la maggiore in numero di fedeli e da tempo contende il primato a Costantinopoli, sede del patriarca ecumenico, oggi Bartolomeo I, primus inter pares, con un ruolo preminente rispetto all’intero mondo ortodosso. Tuttavia quello di Costantinopoli è un patriarcato declinante: appena tremila fedeli, tenuto in vita dalle settantadue diocesi della diaspora, in gran parte negli Stati Uniti. Il difficile rapporto con il governo turco, aggravato dalla recente crisi tra Ankara e Mosca , ha portato al divieto di celebrare il concilio a Istanbul, com’era invece da programma. La scelta di tenerlo a Creta è quindi un ripiego che, di per sé, toglie lustro al patriarca di Costantinopoli e – ironicamente – gioca a favore dell’omologo russo, da sempre impegnato nella conquista della leadership.
La lotta per il potere nel mondo ortodosso è infatti più importante di quanto sembri: Vladimir Putin, attento a ricostruire nel paese un’identità legata alla religione e alla conservazione dei valori tradizionali, ha fatto del patriarcato il braccio spirituale del Cremlino, come già in passato fecero gli zar. L’alleanza tra trono e altare si è rafforzata notevolmente negli ultimi anni proprio grazie all’operato di Kirill, a capo della Chiesa russa dal 2009. La tutela di Putin su Kirill è stata sancita da un atto simbolico nel 2011, quando la residenza del patriarca venne spostata proprio al Cremlino. Fare di Kirill il capo de facto della Chiesa ortodossa è un obiettivo politico di primaria importanza per Mosca.
Tra Mosca e il Vaticano
Attraverso il patriarcato, Mosca tesse relazioni diplomatiche che guardano al Medio Oriente, all’Europa orientale, all’Unione Europea. In un periodo di grave isolamento politico e di sanzioni economiche, la religione diventa per il Cremlino occasione per portare avanti strategie di politica estera. Il Vaticano è stato, negli ultimi anni, un interlocutore importante specialmente dopo l’elezione al soglio pontificio di Bergoglio.
L’incontro tra Kirill e Bergoglio, avvenuto a Cuba il 12 febbraio scorso, è infatti solo l’ultimo atto di un lungo corteggiamento tra Mosca e il Vaticano. In quell’occasione si è parlato della fine dello scisma tra le chiese cattolica e ortodossa, e del destino dei cristiani in Medio Oriente, perseguitati dal fondamentalismo islamico. L’evento – storico – è stato preceduto da alcuni passaggi fondamentali: anzitutto la lettera, inviata a Vladimir Putin nel 2013, in occasione del vertice dei G-20 di San Pietroburgo, in cui la Santa Sede rivolgeva alla Russia un appello perché si facesse garante della pace in Siria. Putin incontrò allora Bergoglio portando in dono l’icona della Madonna di Vladimir, dal potente significato simbolico, poiché fu quella che Stalin fece volare su Mosca durante l’avanzata nazista: un altro ‘nazismo’ unisce oggi nella lotta Cremlino e Vaticano: quello del fondamentalismo islamico. Una minaccia che allarma la Chiesa cattolica, la quale ha criticato Washington per la sua intenzione di abbattere Assad attraverso l’utilizzo di milizie fondamentaliste. Da qui nasce l’avvicinamento a Mosca e per questo, nel giugno 2015, malgrado l’isolamento internazionale seguito all’aggressione della Crimea, Bergoglio e Putin si sono nuovamente incontrati, discutendo su come raggiungere la pace in Siria. Pochi mesi dopo Mosca interveniva nel conflitto siriano, a fianco di Assad. In quell’occasione Kirill definì Putin “l’ultimo difensore dell’occidente”.
Kiev, Atene e Skopje: una geopolitica confessionale
L’intesa tra Vaticano e Mosca passa anche da Kiev, ed è testimoniata dalla questione della Chiesa uniate di Ucraina, una “ferita che sanguina” nelle parole di Kirill, il quale male sopporta questi cattolici di rito orientale, secolare cavallo di Troia del cattolicesimo nel mondo ortodosso. Tuttavia, di ritorno da un viaggio pastorale, Bergoglio dichiarò: “Le Chiese cattoliche orientali hanno diritto di esistere, è vero. Ma l’uniatismo è una parola di un’altra epoca”. Che il Vaticano abbia deciso di sacrificare gli uniati sull’altare dell’alleanza, politica e confessionale, con Mosca?
Altro tassello di questa geopolitica ‘confessionale’ è la Grecia. In occasione dei mille anni di presenza monastica russa al Monte Athos, il 27 maggio scorso Kirill e Putin hanno incontrato rappresentanti del governo, firmando accordi energetici per 2,7 miliardi di euro. In occasione della visita, il primo ministro Tsipras ha dichiarato “improduttive” le sanzioni alla Russia. Premessa a questo incontro furono le relazioni che, nel 2012, videro Kirill fare da ambasciatore per un prestito da parte del Cremlino, tale da portare Atene in orbita russa. L’offerta arrivò al governo tramite sua Beatitudine Hyeronimus, primate della Chiesa greca. Un incontro che spinse il patriarcato di Atene verso Mosca, malgrado la storica vicinanza con Costantinopoli che – formalmente – ha giurisdizione su Creta, Dodecanneso e Monte Athos.
La Grecia – come già la Bulgaria – rappresenta per Mosca la chiave di accesso all’UE, e dove non può la politica, si tenta con la religione. L’influenza del Cremlino vorrebbe estendersi anche ai Balcani, ma la storica alleanza con Belgrado segna il passo. Ecco allora che Kirill – nel suo discorso al Monte Athos – indirizza al governo greco l’urgenza di risolvere la questione del nome con Skopje. Il suo messaggio di “unità tra confratelli” arriva nel pieno della crisi politica macedone, e segue di un anno la visita pastorale nella quale Kirill affrontò anche il problema dello status della Chiesa macedone, staccatasi da quella serba e non riconosciuta dalla comunità ortodossa. Ancora una volta il dinamismo del patriarca russo emargina Costantinopoli e muove sul doppio binario politico e confessionale.
Il papa e l’imperatore
Tramite l’alleanza con Mosca, la Santa Sede spera di ricucire lo strappo con le Chiese ortodosse e orientali, allo scopo di ottenere sul lungo periodo la ricomposizione dello scisma tra cattolici e ortodossi. Ma il pulviscolare mondo delle Chiese ortodosse rende ardua l’impresa, e l’individuazione di una guida che le rappresenti è, per la monarchia pontificia, un pre-requisito essenziale. Alle spalle del patriarcato moscovita c’è il Cremlino, ma questo – più che un problema – sembra essere una risorsa: il mondo ortodosso nasce sotto l’egida dell’imperatore, con quel concilio niceno (325 d.C.) che sancisce il cesaropapismo. Se oggi un nuovo cesare dovesse mettersi alla guida del mondo ortodosso, per il Vaticano potrebbe non essere affatto un problema.