150 chilometri in autobus lungo la costa ad ammirare da una parte il mare, dall'altra un'arca della fertilità, contadina e pastorale. Continua il nostro viaggio all'esplorazione di Creta
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Da Réthymno ad Aghios Nikólaos, la San Nicolò dei veneziani, ci sono 150 chilometri. Un viaggio in due tappe, con cambio bus a Iraklio, a metà strada. Un'oretta abbondante il primo tratto, più di due ore il secondo, perché la strada costiera si fa più stretta, tortuosa e spettacolare. Oggi i bus sono moderni e confortevoli, ma le velocità rimangono basse, così che il viaggiatore rimanga anche spettatore di un film cretese, con tre grandi protagonisti. Il mare, oggi a sinistra, plumbeo e corrucciato; le montagne, a destra con le vette innevate; il cielo, attraversato da nuvole che sono bianchi vascelli in navigazione verso nordovest, con il vento in poppa. Il primo bus era pieno a metà, mentre su questo secondo che ci porta ad Aghios Nikólaos, siamo solo una quindicina di passeggeri. Immancabile il sottofondo musicale che spazia dai motivi più tradizionali, con bouzuki e voci lamentose, a un improbabile pop greco. L'autista ha un suo piccolo altare sincretico, con corona dorata ortodossa sul cruscotto su cui oscilla un acchiappasogni di piume, perline e conchiglie in stile cheyenne. Quindi non solo world music, ma anche world faith.
Arrivo puntuale in un'anonima stazione dei bus nella prima periferia di questa cittadina di 15.000 abitanti. Dopo essere sceso, entro per informarmi sugli orari per la successiva tappa a Sitia, la città più orientale di Creta, e scopro un tabellone che ripercorre tramite le foto dei bus la storia della compagnia KTEL, dalla sua fondazione nel 1952. In quell'anno il servizio divenne pubblico, ma le corriere erano già il principale mezzo di trasporto tra le due guerre, insieme ai taxi ad uso anche dei primi turisti. Un viaggiatore d'eccezione, lo scrittore americano Henry Miller, nel 1943 racconta di essere andato da Iraklio a Festo con una sontuosa limousine a noleggio, su strade polverose, “sparpagliando a destra e sinistra polli, gatti, cani, tacchini, bambini nudi e canuti venditori di dolciumi”. Se tutto questo per fortuna è solo un ricordo letterario, pittoresco per il forestiero ma miserrimo per il cretese, viaggiando in bus si può però godere ancora di un antico paesaggio collinare plasmato nei millenni dall'uomo, da contadini che hanno saputo sfruttare al meglio piccole, preziose terre feconde. Lungo la costa settentrionale, da est a ovest, la campagna è ancora produttiva. La vite e l'ulivo sono gli indiscussi primattori di un’isola vestita di vigneti e uliveti, che profuma di vino e olio. Creta è un'arca della fertilità, contadina e pastorale.
Una fertilità di cui il Golfo di Mirabello, al cui centro è cresciuta Aghios Nikólaos sui resti di una città minoica, è un compendio. Un golfo ricco e importante per i veneziani, che al suo ingresso sull'isoletta di Spinalonga costruirono alla fine del XVI secolo una delle loro più imprendibili fortezze. Un golfo da navigare, ma anche da camminare e pedalare, lungo la strada costiera. Così ho fatto, prendendo a noleggio una bici in un luminoso e fresco mattino d'aprile, con il cielo finalmente spazzato dalla Tramontana. Una pedalata di venti chilometri, in direzione nord, che diventano venticinque se si percorrono le strade bianche della penisola di Spinalonga. Ma c'è anche da camminare se si vuole raggiungere il faro di Agio Ioannis, sull'omonimo capo che chiude a nord il golfo.
Sul versante orientale della penisola mi regalo un tuffo, anzi tre! in acqua cristallina e gelata. Mi asciugo velocemente e mi siedo sulla scogliera per godermi finalmente il sole. “In Grecia uno ha il desiderio di bagnarsi nel cielo”, ha scritto Henry Miller e, aggiungo io, di immergersi nel mare. In Grecia la relazione con l'aria, l'acqua, la terra e il fuoco è sempre dionisiaca. Una voluttuosa relazione carnale con il cielo e il mare, con la terra e il sole. Ma anche con i silenzi che qui oggi, in questo giorno feriale di primavera, in questa piccola terra circondata dal mare, sono adamitici.
Ritorno sulla strada costiera per andare verso l'isola-fortezza di Spinalonga che adesso rimane in vista. Uno sperone di roccia circondato da un blu sempre più profondo, mano a mano si va verso l'ampia imboccatura del golfo. Sull'isoletta ci vado con una barchetta che fa la spola dal molo di Elouda. Fin dall'imbarco sul piccolo molo, rivivo fotogramma dopo fotogramma la storia raccontata da Werner Herzog nel cortometraggio Letzte Worte, Ultime parole. Così, dopo aver superato la Porta di Dante, cioè il tunnel d’ingresso alla fortezza, continuo anche io a ripetere il mantra del protagonista del film, un vecchio suonatore di lira cretese che, ultimo abitatore della fortezza divenuta lebbrosario, era stato costretto a lasciarla. “Non dirò niente di niente, non voglio dire nemmeno no, è la mia ultima parola”. Così anche io di Spinalonga non scrivo niente e mi limito ad invitarvi ad ascoltare ad occhi chiusi le parole e le musiche del cortometraggio, per visitarla in sogno.
Nel pomeriggio risalgo in sella per andare a Vrouchas, sul crinale del promontorio che chiude il golfo a nord. Poco prima del villaggio c'è una spettacolare infilata di ruderi. Una dozzina di mulini a vento, quasi tutti diruti. Alcuni hanno ancora i pennoni che portavano le pale. Entro in uno di questi e rimango lì incantato ad osservare il cuore di queste creature donchisciottesche. Ingranaggi di legno su basamenti di pietra e su tutto polvere, polvere, polvere. Polvere portata dal vento e dal tempo.
ps
Letzte Worte, Ultime parole, il cortometraggio di Werner Herzog, è visibile online . Girato nel 1967, dieci anni dopo la chiusura del lebbrosario sull'isola-fortezza, quando non era diventata meta del turismo internazionale. Un cortometraggio girato dal visionario ed errante regista tedesco, durante la lavorazione del suo primo film Lebenszeichen, Segni di vita. Ambientato durante la Seconda guerra mondiale nell’isola di Kos, racconta le stravaganti peripezie di un soldato tedesco asserragliatosi in un forte. Due isole, due fortezze, due uomini travolti dalla grande storia, che provano a resistere o forse solo a desistere.