Continuiamo nel nostro reportage "Lettere da Creta". Dopo il capoluogo Iraklio ecco Chianià per le cui vie si può annusare e assaggiare un mondo contadino che a Creta è ancora vivo e produttivo
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L'imprevisto è il sale del viaggio.
Lo era un tempo e lo è ancor di più oggi, quando sul web cerchiamo e troviamo tutto, o quasi tutto, per fortuna. Un gran viaggiatore moderno, Nicolas Bouvier, ha scritto che il viaggio può dirsi tale solo se condito di sorprese e tribolazioni. In questo mio viaggio l'imprevisto più grosso si è palesato in forma di Covid, prima della partenza, causando la defezione di Pino, amico e Virgilio musicale.
Pino con cui, in lunghe e buie sere d'inverno passeggiando sulle rive urbane adriatiche, avevamo immaginato lunghi e luminosi giorni di primavera per le strade di Creta. Pino con cui per mesi avevamo scambiato versi e canzoni di un mondo greco che abitiamo da anni, anche a distanza. Pino con cui avevo disegnato mappe ascoltando il suono malinconico del suo bouzouki, in compagnie conviviali accomunate da una palpitante cretafilia. Mi sono così trovato solo tre giorni prima di partire e indeciso innanzitutto su come muovermi a Creta. Probabilmente se avessi pianificato fin dall'inizio in autonomia mi sarei organizzato per attraversarla in bici, come ho già fatto recentemente con soddisfazione, ma anche con non poche difficoltà, sull'altra grande isola dell'oriente mediterraneo: Cipro. Ma a quel punto ho optato per il bus, l'unico mezzo pubblico cretese. Chiara, un'amica che proprio di Chianià è cittadina onoraria per trentennale frequentazione e passione, mi ha subito confortato: “I bus funzionano bene e hanno una rete capillare. KTEL, la compagnia pubblica, è un'istituzione. Kalo taxidi!”.
Eccomi così, in un tardo pomeriggio d'aprile alla stazione dei bus di Iraklio, moderna e funzionale, nei pressi del porto. Bus n.26 in partenza da Iraklio alle 17:20, con arrivo previsto a Chianià alle 20:00. Chilometri 140 sulla costa nord, in direzione est, sulla strada più trafficata dell'isola che collega le due città principali, passando per la terza: Retimno; prezzo del biglietto 13,80 euro. In bus siamo una ventina di persone, io e un paio di ragazze nordiche gli unici stranieri. Percorriamo la statale che dopo aver lasciato il Golfo di Iraklio, sale e ondeggia tra promontori e baie, regalando splendidi affacci sull'Egeo. Qualcuno sale e altri scendono, in fermate improvvisate che immagino gelide d'inverno e torride d'estate.
Arrivo puntuale a Chianià e prendo alloggio vicino alla centralissima Chiesa Metropolitana della Presentazione. Una doccia veloce e scendo verso il vecchio porto, per secoli cuore pulsante della città e oggi gioiello acqueo stretto da una sarabanda di ristoranti, osterie e bazar. Non c'è tanta gente in giro, quindi l'immancabile musica greca delle taverne è ancor più lamentosa. Deserta è la banchina sotto alla Fortezza Firkas, all'ingresso del porto. Mi siedo su una panchina; di fronte a me il faro ricostruito più volte a partire dal primo edificio veneziano del XVI secolo. Quante barche, piccole e grandi, militari, commerciali e peschercce ha guidato nella notte. Quante storie di pace e di guerra sono state illuminate da questa lanterna. Qui stanotte il silenzio è musicato dallo sciabordio dell'onda lunga che preannuncia burrasca da Scirocco. Apro la playlist che mi ha preparato Pino e ascolto Fragosyriani di Markos Vamvakaris, un classico del rebetiko. La canzone racconta di una ragazza cattolica di Syros, una piccola isola delle Cicladi, anch'essa legata alla storia veneziana. Storia di galee che vanno e vengono, di genti che combattono e commerciano, di donne e uomini che amano e litigano.
Il giorno dopo mi metto in cammino alla scoperta di quella che i veneziani chiamavano La Canea, anche se sul primo vero isolario di Benedetto Bordone, pubblicato nel 1547, leggo Cania al centro del golfo protetto a ovest da Capo Spati e Capo Meleccha, con al centro la piccola isola di Elturluru. Geografie incerte e fantasiose diciamo noi oggi, comunque La Canea era e rimane il primo grande porto di Creta, provenendo da nordovest. Scopro subito che due luoghi centrali sono purtroppo chiusi: il museo archeologico e il grande mercato, il primo perché verrà trasferito in una nuova sede il secondo per restauro. Se dei tesori museali mi devo accontentare solo di alcune immagini e informazioni trovate in rete, del mercato ritrovo casualmente tutte le colorate e profumate merci, tutte le voci e le sonorità commerciali. Perché seguendo il perimetro esterno delle mura occidentali finisco nelle vie che ospitano decine di bancarelle di frutta, verdura, formaggi e carni. Anche qui il mercato alimentare è l'occasione per entrare nel vivo della quotidianità, per annusare e assaggiare un mondo contadino che a Creta è ancora vivissimo e produttivo. Se pomodori, cetrioli, patate e insalate sono ormai cosmopoliti, erbe selvatiche e aromatiche sono ciò che di più odoroso, saporito, originale offrono le rive mediterranee. Finocchietto e aglio fresco, timo e origano secchi, asparagi, fave, piselli e carciofi, olive d'ogni tipo; dalle grandi, nere e famose kalamata alle piccole, verdi e semisconosciute tsakistes, buonissime entrambe e a 6,50 euro al chilo. Ma scopro anche che a Creta c'è una importante produzione di abokanta, cioè piccoli avocado nella varietà verde hass e in quella scura opima, rispettivamente a 2,50 e 1,50 euro al chilo. Non mancano formaggi di vari tipi, colori, dimensioni e profumi, carni di maiale, manzo e agnello. Ci sono un paio di venditori ambulanti di polli arrosto che già alle 9 girano sugli spiedi e uno specializzato solo in conigli. Scuoiati, con l'eccezione delle zampe, sacrificati a oscure divinità dionisiache.
Dopo il rumoroso affollamento del mercato, mi appare ancor più suggestivo il silenzioso solare affaccio che mi offre il terrapieno del bastione di Santa Caterina. Lì dove un tempo si vigilava l'ingresso del porto e della città, dove spesso si è sparato, oggi è un profluvio di fiori selvatici. Margheritone bianche, malve violacee, crisantemi gialli sono i coloratissimi signori di queste rovine. A nord il blu cangiante dell'Egeo, a sud le vette innevate dei Lefka Ori, le Montagne Bianche, Monti Leuca per Benedetto Bordone, con cime che superano abbondantemente i 2.000 metri. Ci sono poi i segni dell'uomo, di ieri e di oggi: mura e fossato possenti, casette addossate all'interno testimoni di secoli di paure che venivano dal mare, palazzine novecentesche altrettanto accalcate fuori le mura testimoni di decenni di eccitazione balneare.
Scendo alla scogliera sotto le mura che è quasi mezzogiorno. C'è un bel sole e al largo soffia già forte lo Scirocco che qui invece arriva a sbuffi allagando ventagli sulle acque quiete. Limpidissime e irresistibili. Mi spoglio e mi tuffo. Gelido l'abbraccio. Nuoto comunque verso il largo. A destra l'antico faro vigila sullo spavaldo nuotatore; a sinistra più lontano il profilo dell'isola Agioi Theodori, su cui i veneziani costruirono una piccola fortezza di guardia al porto. Ritorno alla scogliera, salgo e mi rituffo un paio di volte, per godere di fanciulleschi piaceri, di questo amore primaverile egeo. Poi sulla scogliera pranzo con pane al sesamo, olive e formaggio. Viva la vita! appunto sul taccuino, randagia e frugale.
PS
Il Libro di Benedetto Bordone nel qual si ragiona de tutte le isole del mondo, pubblicato a Venezia nel 1528 e poi più volte ristampato come Isolario, è stato disegnato e scritto da Benedetto Bordone, che muore due anni dopo. Era nato a Padova nel 1450, dove abitò per la prima parte della sua vita prima di trasferirsi a Venezia. Miniatore, disegnatore, geografo, editore di classici, forse anche pittore, per la redazione del suo Isolario raccolse la testimonianza del nipote Baldassarre che aveva visto molti dei luoghi descritti, arrivandoci come medico militare "sopra le potenti armate de segnori Venetiani e del chatolico re".