"Manolis rappresentava infatti l’ideale dell’uomo libero, capace di mettere in discussione se stesso, senza mai dare per scontata un’idea, come se fosse una verità assoluta". Diego Zandel ricorda l'amico e poeta greco scomparso qualche anno fa
Questa estate sono tornato a Kos con il pensiero di andare sulla tomba del poeta greco Manolis Fortounis, scomparso a 93 anni, nel 2019. Ho faticato a trovarla. Con l’intento di cercarla, mi ero addentrato nel cimitero di Kefalos, il suo villaggio natìo e dove tornava con la bella stagione. Ma erano così tante le tombe e tutte accostate l’una all’altra piuttosto disordinatamente, con passaggi stretti tra esse, che, dopo tanto girare a vuoto, desistetti. Anche perché a vedere tutte quelle lapidi e quelle foto di gente di ogni età morta, m’era salito un magone che aveva reso pesante l’atmosfera che respiravo.
Uscii dal camposanto da una uscita secondaria, per una breve rampa di scale che dava sul parcheggio. Fu allora che vidi aperta una finestra che faceva da sportello per gli uffici del cimitero. Mi avvicinai e ad una impiegata che sedeva a una scrivania sotto la finestra e chiesi della tomba di Manolis. Una sua collega, da una scrivania vicina, alzandosi, mi disse che mi avrebbe accompagnato. E così fu. La seguii lungo quel percorso frastagliato fino ad arrivare all’estremo lembo del cimitero: la tomba di Manolis era l’ultima, affacciata sul golfo di Kefalos, davanti alla collina che sovrasta il porticciolo di Kamari, la stessa collina dove c’è la casa di Manolis. In pratica la tomba guarda la sua casa.
Più sereno, ora, davanti a quello straordinario panorama azzurro di verde, di cielo e di mare, l’ombra di un paio di piccoli pini che mi proteggeva dal sole e un venticello che rendeva sopportabile quella mia sosta, guardai la tomba, con le sue scritte in caratteri greci che cercai di interpretare. Intanto il nome e cognome in grande, Manolis Fortounis 1926-2019, per tutta l’estensione della lapide che sovrasta la tomba, alta fino ad arrivarmi alla cintura. Quindi tre versi di una sua poesia tratta dalla sua ultima raccolta “Diadromes” (“Percorsi), che raccoglie momenti della sua intensa vita di combattente per la libertà.
Σε αυτό το χώμα χίλιες φορές έχεις πεθάνει,
χίλιες φορές σε ανάστησε το κύμα, ο ήλιος,
ανοιχτόκαρδος, περιγελαστικός…
Su questa terra mille volte sei deceduto,
mille volte l’onda ti ha fatto rivivere, il sole,
con il cuore aperto sorridente...
Lo andavo a trovare tutti gli anni. L’estate precedente alla sua morte non mi era stato dato il modo di incontrarlo. La moglie, Stella, tramite un’amica comune, mi aveva pregato di non venire a trovarlo: Manolis stava troppo male, non era in condizioni di ricevere visite, confuso nella mente e incapace ormai di parlare e voleva evitare di lasciarmi di lui un triste ricordo. Forse è stato meglio così. La sua foto sulla tomba mi riporta a un volto molto più giovane di quello che avevo conosciuto. Il volto sereno di un uomo sorridente, dallo sguardo in cui si percepisce la bontà che giaceva nel profondo della sua anima.
Avevo conosciuto Manolis molto più tardi di quella foto, nel 2006, in occasione del suo ottantesimo anno, quando gli allora tre comuni dell’isola, Kos, Dikeo e Iraklion, oggi a causa della crisi economica raccolti tutti sotto il municipio di Kos, organizzarono un convegno in suo onore. Io ci ero capitato per caso, al seguito del mio amico, Costantino Kojopoulos, uno psichiatra che si era laureato a Roma, appassionato della storia dell’isola sulla quale ha scritto libri fondamentali, e che al convegno aveva svolto una relazione sugli eventi che avevano portato Manolis a diventare comunista.
La conversione ha dello straordinario: lo è diventato, infatti, all’incontro con un soldato tedesco, un certo Rudi, arrivato nell’isola nel 1944 direttamente dalle galere di Hitler, quando, per le continue perdite, l’esercito tedesco ormai a corto di uomini risolse il problema con l’arruolamento forzato di prigionieri comuni e politici. Tra questi ultimi c’era Rudi, che arrivò a Kos, precisamente nel villaggio di Kefalos, dove viveva Manolis, con altri due comunisti. Al contrario degli altri soldati, nessuno dei tre era armato, ma dovevano ugualmente indossare l’odiata divisa della Wermacht.
Un giorno accadde a Manolis di incontrarlo, mentre, diciottenne, si trovava a lavorare nel negozio del padre, il cosiddetto pantopoleion del villaggio, cioè un magazzino in cui si vendeva di tutto. Si vide arrivare quest’uomo in divisa, sulla quarantina, Rudi appunto, vestito da soldato tedesco, che gli fa “Ich kommunist”, sono comunista. Mi raccontò Manolis: “Era la prima volta nella mia vita che sentivo quella parola. Mi avvertì: nasconditi, i tedeschi cercano operai di età superiore ai sedici anni e asini. Naturalmente, seguii il suo consiglio e non solo quello. Ben presto, grazie a lui, riuscimmo a muoverci nella clandestinità organizzando atti di sabotaggio, conditi da insegnamenti sul proletariato e la lotta di classe. È stata per me un’esperienza formativa straordinaria”.
Per il resto, la sua vita era stata un esempio dal quale avevo tratto un profondo insegnamento. Manolis rappresentava infatti l’ideale dell’uomo libero, capace di mettere in discussione se stesso, senza mai dare per scontata un’idea, come se fosse una verità assoluta. Non fu un cammino semplice, anzi fu seminato da incomprensioni e dolori. Senza mai rinnegare quanto aveva fatto in vita, pagando le sue idee, come molti comunisti, con vent’anni di carcere e confino. In quegli anni che i greci chiamano “gli anni di pietra” aveva poi avuto la forza e la capacità di riflettere sulle sue idee alla luce della sua esperienza.
Ricordo una delle prime frasi che mi disse: “Se dopo la guerra il KKE avesse accettato la democrazia occidentale e, invece di fare la guerra civile, ci fossimo presentati alle elezioni, avremmo avuto 90 deputati in parlamento e la possibilità di contribuire alle riforme che necessitavano al Paese. Aver rifiutato questa scelta, in nome della lotta armata, ha favorito il regime autoritario che ci ha relegati per anni nella illegalità e nella impotenza. Avremmo dovuto fare come i comunisti italiani, ma la differenza tra noi e loro era che l’Italia aveva perso la guerra, mentre noi l’avevamo vinta e volevamo portare la vittoria fino al socialismo. Non valutammo che i giochi a Yalta erano già stati fatti. E noi, come potevamo lottare da soli contro la volontà delle grandi potenze?”
Ormai Manolis riteneva la democrazia, il pluralismo, le elezioni, le libertà civili, il rispetto reciproco di tutte le idee, il sale di qualsiasi azione politica e aveva posto una distanza incolmabile tra i regimi dittatoriali dell’est, a socialismo reale, e la società che gli era stata di vivere dopo il 1974, quando, caduto il regime dei colonnelli, tutti i prigionieri politici erano stati liberati dal vecchio Karamanlis e il partito comunista, fuorilegge fino a quel momento, legalizzato.
Non so se il ripensamento sul comunismo fosse cominciato quando era ancora confinato a Aghios Estratos, dov’era finito, ventunenne, nel 1947, o a Makronissos, dove aveva passato gli anni peggiori da quando, nel corso della guerra civile che dilaniò la Grecia dal 1946 al 1950, venne arrestato, quale militante dell’Elas, dai monarchici, finendo a spaccar pietre nelle isole più aride e sperdute dell’Egeo.
Uscito in libertà vigilata nel 1958, con l’avvento della dittatura dei colonnelli nel 1967, Manolis venne nuovamente arrestato. Il grande poeta ateniese, Titos Patrikios, suo amico, aveva raccontato come lui fosse riuscito a salvarsi, fuggendo in Italia, mentre Manolis, per un contrattempo, non ce l’avesse fatta, finendo di nuovo nel famigerato campo di concentramento di Makronissos e, più tardi, nel campo di Partenis a Leros, per lo meno vicino alla sua amata isola di Kos.
È tornato definitivamente libero nel 1974, con la caduta della giunta dei colonnelli. D’allora, gli è rimasta solo un’abitudine, dovuta ai rischi di essere udito dall’oppressore: quella di parlare sottovoce. Se è sopravvissuto, è anche per aver sempre seguito le tre regole che i prigionieri politici si erano dati: mangia ciò che ti danno, cura la tua cella, studia.
Va sottolineato a riguardo che in tutti quegli anni Manolis non ha mai negato le ragioni ideali che avevano portato al suo arresto, nonostante le torture attraverso le quali i carcerieri spingevano i comunisti all’abiura, per spingerli alla famosa e umiliante “firma”, che li avrebbe salvati dalle durezze della prigionia (celle piccole, sovraffollate, che servivano a far perdere ogni intimità, “se non quella che si poteva trovare mettendo una mano sugli occhi” aveva significativamente specificato Manolis). Raccontava: “C’erano pressioni enormi a riguardo, i carcerieri ci torturavano, a me hanno spezzato le mani” disse, mostrandomi le nocche fratturate ormai per sempre “Bastava poi che uno di noi cedesse e, per demoralizzarci e indebolire la nostra volontà, gli altoparlanti del campo ne davano notizia anche a fini propagandistici. ‘Il vostro compagno tal dei tali ha firmato…’ io ce l’ho fatta a resistere.”
Mi ricordava per questa sua coerenza il fiumano Leo Valiani, che, negli anni del fascismo, arrestato a Fiume in quanto comunista, scontò interamente, come tale, i sei anni di carcere che gli erano stati comminati, nonostante nel corso della prigionia si fosse allontanato da quelle idee per approdare a Giustizia e Libertà dei fratelli Rosselli, sconfessando ogni totalitarismo con una frase che avrebbe potuto affermare anche lo stesso Manolis, e cioè che tra i due totalitarismi – Valiani ha addirittura detto “tra gli stermini nazisti e quelli comunisti” – non c’è differenza.
Me ne sono reso conto quando, parlando con lui degli orrori dello stalinismo, dissi che, forse, se nella contesa con Trockij, avesse vinto quest’ultimo, i paesi socialisti sarebbero stati migliori. Manolis invece mi diede una risposta liquidatoria: “Sarebbe stata la stessa cosa di Stalin una volta al potere. Abbiamo visto che il comunismo è fallito ovunque anche senza Stalin. Non è certo comunismo quello che c’è in Cina, a Cuba o, peggio, in Corea del Nord. Oggi dobbiamo ammettere che il capitalismo crea ricchezza. La questione è dove va a finire questa ricchezza e come tradurla in un bene per l’umanità. È in questo quadro che la sinistra, se vuole avere un futuro, deve dare delle risposte, oltre naturalmente a difendere la democrazia e le istituzioni democratiche, che ritengo essere un valore permanente. Era anche questa la differenza tra noi, comunisti all’interno e i compagni rifugiatisi all’estero, guidati da Tashkent, in Unione Sovietica, dove si era stabilito il grosso dei capi guerriglieri. L’EDA, la Sinistra Democratica Unita, nacque da noi, interni, per partecipare alle elezioni, e per questo ostacolati dai comunisti dell’esterno. Per questo devo però dire che in tutti questi anni di sofferenze, di diritti negati, di incomprensioni, in compenso tutto ciò è servito per darci una personalità.”
Tornato in libertà, Manolis si dedicò al giornalismo, scrivendo per il quotidiano Eleftherotipia. E centellinando versi, grazie ai quali ha pubblicato, nel corso della sua lunga vita, solo quattro libri di poesie: “Iscrizioni e Maschera”, del 1950, “Biografie”, del 1972, e “La ferita e il sale” del 1985. L’ultimo è del 2010, “Diadromes” (Percorsi), una silloge che raccoglie i versi più significativi, tratti dalle altre pubblicazioni. Molto poco, ma, come ha scritto D.N. Maronitis su “To Vima”: “Urge la dovuta valutazione della sua opera poetica, la quale, in capitoli fondamentali di stile e maniera appare oggi prodomica, nell’ambito in particolare della prima generazione del dopoguerra con le sue insistenti scelte e i suoi dolorosi coinvolgimenti nel dilemma della morale politica e poetica”.
Nel frattempo, Manolis, se voleva conferme sul settarismo dei comunisti lo ebbe quando nel 1991 lasciò il KKE per il Synaspismos, la coalizione della Sinistra e del Progresso, e i vecchi compagni, che pure erano stati negli anni in carcere con lui, lo isolarono, togliendogli la parola, atteggiamento per il quale soffrì molto. Credo che anche nella valutazione del settarismo proprio del KKE, non sia stato esente il resto del cammino che Manolis Fortounis ha percorso all’interno della sinistra, cercando una formazione in cui le idee non diventino una gabbia ideologica, ma motivo di confronto nel rispetto reciproco.
È vero che, poi, molti dirigenti del Synaspismos - che seppur composto dal 45 per cento di ex membri del Comitato Centrale del Partito Comunista, alle elezioni del 1993 aveva raccolto solo il 2,94 per cento – avevano poi scelto di aderire di al Pasok, il Partito Socialista Panellenico. Ma Manolis, allora non fece quel passo: rimase con il Synaspismos finché questo non confluì nella Coalizione di Sinistra Radicale, raccolta sotto la sigla di SY.RIZ.A. guidata da Tsipras.
Tuttavia, l’ultimo anno che vidi Manolis, mi disse di non farne più parte per aver aderito al partito della Sinistra Democratica (DIM.AR), nato nel 2010 da una scissione, appunto, da SY.RIZ.A. Un partito che, comunque, oggi si trova nel KINAL (Movimento per il Cambiamento) un’alleanza di centrosinistra con il Pasok e altri partiti, tra cui il KIDISO, fondato da Nikos Papandreou, fratello di Ghiorgos e figlio più giovane del patriarca Andreas Papandreou.