Campochiaro, villaggio che segna l’occupazione italiana dell’isola di Rodi. I primi pionieri arrivarono nel 1935 e se ne andarono nel 1946. Oggi non sono che ruderi circondati da pini secolari. E qui il nostro viaggiatore resta sospeso tra l’ammirazione dell’architettura di un tempo e la consapevolezza dei soprusi coloniali
Cambiare il mondo non è follia e utopia, ma solo giustizia, dice Don Chisciotte. Lui, nel suo delirante viaggio cavalleresco non ha dubbi. Io, nel mio pedalante viaggio insulomane invece di dubbi ne ho molti. Le incertezze del viandante, riguardano percorsi e tappe, ma anche geografie e storie. E quante incertezze ho nel descrivere Campochiaro o Eleousa, come la chiamano i greci.
Anche adesso, a mesi di distanza dal viaggio a Rodi, dopo aver letto tante altre pagine e ascoltato tanti altri racconti. Perché, malgrado la consapevolezza politica riguardante errori, soprusi, violenze, tragedie del passato coloniale italiano, rimane però l’ammirazione per architetture, urbanistiche ed economie delle città di fondazione, anche quelle del Dodecaneso.
Preciso subito che Campochiaro non è una città, ma un villaggio con una piazza rettangolare sui cui lati corti stanno la chiesa e la scuola e su quelli lunghi abitazioni e servizi. C’erano poi altre piccole case diffuse, oggi diroccate e divorate dai rovi, la villa dell’ingegnere forestale responsabile Giuseppe Valcanover, la cisterna con la sua fontana e le migliaia di alberi piantumati dagli italiani.
I primi pionieri, una dozzina con le famiglie, arrivarono sull’isola nel 1935, quando il governatore era Mario Lago, ideatore e organizzatore di tutta la vicenda.
“I miei nonni raccontavano, che si stava bene insieme ai coloni nei primi anni. Poi quando è arrivato il fascista De Vecchi le cose sono cambiate”, mi dice in inglese Demetrios, un contadino sessantenne con cui mi fermo a fare due chiacchiere sui gradini della chiesa ora ortodossa di San Caralampo, santo di cui non conoscevo neanche il nome.
Lui è appena arrivato qui con un vecchio pickup Toyota, stracarico di taniche, barili, vanghe, zappe, badili e mille altri attrezzi. Nato e cresciuto a Campochiaro da famiglia di contadini, poi si trasferì da ragazzo ad Atene, dove ha fatto per tutta la vita il portiere d’albergo. Da tre anni è in pensione ed è felicemente tornato nella sua isola.
“Sýnchysi stin Athína… confusion in Athens!”, e prosegue “Rýpansi kai ftócheia… come si dice in inglese o italiano?”
Non riesce a tradurre e così ci aiutiamo con Google Translate: “Inquinamento e povertà”.
Mi saluta ed entra in chiesa, per dire una preghiera e accendere una candela, “éna prosefchí, éna kerí”, per nonni e genitori che gli hanno lasciato la casa e la terra. Io invece faccio un giro tra interni ed esterni degli edifici abbandonati. Un patrimonio architettonico alla mercé dei vandali; un patrimonio storico in balia dei dimentichi.
Leggo pagine e guardo video su questa: follia o utopia? riprendendo le parole di Don Chisciotte, povertà o necessità? riprendendo quelle di boscaioli e segantini fiemmesi, fascismo o colonialismo? riprendendo quelle degli storici. Domande irrisolte, emozioni irreali. Perché non riesco a risolvere una vicenda così complessa, perché non corrisponde al reale, al nostro reale, una vicenda così lontana. Complessa e lontana, per situazione economica, politica e sociale.
Campochiaro, i suoi ruderi e i suoi pini centenari, che m’ombreggiavano dolcemente nell’aprile 2023. Campochiaro, le sue architetture monumentali e i suoi pini giovani, che vedo nella cartolina d’epoca, trovata in rete ora che scrivo.
Campochiaro era un “villaggio di boscaioli metropolitani”, trascrivendo la definizione data dall’edizione del 1936 dell’Enciclopedia Treccani, alla voce “Rodi”. Campochiaro è una gost town oggi. Quei boscaioli, con le loro famiglie, sono ritornati nei loro paesi della Val di Fiemme a partire dal 1939, fino agli ultimi nel 946, con la caduta del regime nazista e la presa del potere dei britannici. Alcuni fecero ritorno tra le innevate, fredde e povere montagne trentine mal volentieri, ascoltando le video testimonianze dei nipoti raccolte per il documentario “Il sogno breve di Campochiaro”.
Nella luce calda del tramonto m’aggiro tra queste rovine, andando d’edificio in edificio, di camera in camera. In una piccola stanza della scuola e/o casa del fascio ci sono cumuli di calce bianca, una vera e propria installazione d’arte contemporanea. Bianco su bianco, polvere su polvere, che continua inesorabilmente a precipitare. Sono vascelli invisibili che la luce diafana che filtra dall’unica finestra vetrata magicamente fa apparire. Da una seconda finestra guardo fuori e vedo un mulo che sta brucando intorno ai maestosi pini che circondano il villaggio, incurante della follia e dell’utopia, della desolazione e del silenzio. Anche le mie incertezze sono mosche per lui che, senza smettere di ruminare, scaccia con un colpo di coda.
PS
Alla storia di Campochiaro è dedicato il libro “Gli uomini del legno sull'isola delle rose: la vicenda storica del villaggio italiano di Campochiaro a Rodi, 1935-1947”, di Renzo Maria Grosselli, pubblicato da Curcu & Genovese, nel 2012. Inoltre online, si può vedere il trailer del documentario “Il sogno breve di Campochiaro ”, Renzo Maria Grosselli e Agrippino Russo, presentato nel 2014 al Trento Film Festival