Sulla strada che da Embonas porta al monte Profitis Ilias, il nostro Fabio Fiori fa la conoscenza di un botanico a caccia fotografica di orchidee selvatiche. L’isola di Rodi conserva un piccolo gioiello autoctono, l’Ophrys rhodia
La strada, bianca o asfaltata, piccola o grande, deserta o trafficata, nota o ignota, regala sempre occasioni d’incontro. Qualche volta tragiche, come nel mito di Edipo, altre volte interessanti, soprattutto per chi va a piedi o in bici.
Perché la strada non è più una infrastruttura anonima da percorrere alla massima velocità, ma ritorna ad essere un luogo magico da vivere alla massima intensità, così come quando ci si muoveva per necessità a velocità animale, d’uomo, d’asino, di cavallo.
Perciò per i greci la strada, ὁδός, è radice del viaggio, ὁδοιπορία, e l’odeporica è il racconto del viaggio. Un’odeporica che la bicicletta, rispetto al cammino, dilata nello spazio, mantenendo le occasioni d’incontro, le emozioni d’inciampo.
Per me oggi, in un fresco giorno d’aprile, sulla strada che da Embonas va al monte Profitis Ilias, una quindicina di chilometri che attraversano boschi e radure a 500-600 metri d’altezza, l’incontro è con un fotobotanico inglese e l’emozione ha le forme e i colori delle orchidee selvatiche. Piccole e bellissime, capolavori vegetali di cui è ricca l’isola, con oltre cinquanta specie censite, mi racconta Alan.
Lui le ha fotografate tutte, in un lavoro minuzioso portato avanti negli anni. Rodi non è solo “the island of Knights and roses”, ma è anche un floral paradise. Mi invita a scendere dalla bici e a seguirlo.
Lasciamo il margine stradale e a qualche decina di metri s’inchina per mostrarmi un piccolo gioiello autoctono, l’Ophrys rhodia. Sepali, gibbosità, petali e labello formano la testa di un animaletto profumato uscito da una favola esioidea. La rhodia ha un labello maculato bianco e violascuro, un gioiello degno di corone regali.
Arrivo a mezzogiorno all’Hotel Elafos, insieme a cumuli minacciosi portati dal Maestrale. L’albergo, inaugurato nel 1929, in stile alpino, molto ben restaurato, è stato costruito vicino alla vetta del monte Profitis Ilias, alto 798 metri. Bianco, con particolari in pietra calcarea a vista, tre piani il corpo centrale, due i laterali, balconcini e balaustre in legno scuro, come il cornicione, circondato da boschi di pino e immerso in profumi resinosi.
Parcheggio la bici, mi metto una maglia asciutta ed entro. Sono, per abbigliamento e situazione, un pesce fuor d’acqua; praticamente l’unico pesce, se si esclude il barman che in perfetto inglese mi saluta e invita ad accomodarmi. Anche la lunga sala con soffitto voltato, arredamento da caffè viennese e pianoforte a coda lunga amplifica il mio straniamento.
Comunque mi accomodo a un tavolino vicino alla finestra, mentre fuori comincia un acquazzone. Ordino un caffè, chiudo gli occhi e respiro profondamente. Piano piano mi acclimato e mi concedo qualche pagina di Durrell. Sono quelle dell’appendice di Riflessi di una Venere Marina, il Piccolo calendario dei fiori e dei santi di Rodi, un breve almanacco ricchissimo di spunti, dove scopro che proprio in aprile “Le orchidee sono al culmine della fioritura. Gli iris sono ancora belli. Stanno per finire i narcisi”.
Vorrei fermarmi ancora, magari ascoltando qualche brano suonato al pianoforte o leggendo qualche pagina di Triangolo a Rodi, di Agatha Christie. Ma sta spiovendo e voglio vedere qui vicino Villa Mussolini, anche se va subito detto che la villa fu fatta costruire nel 1938 dall’ultimo governatore italiano di Rodi, Cesare Maria De Vecchi, che invitò il Duce, mai arrivato, anche perché di lì a poco il regime crollò e Rodi passò ai tedeschi.
Non trovo indicazioni, non c’è nessuno in giro e mi affido quindi anch’io a Google, ormai una divinità del XXI secolo, non solo sapienziale, ma anche spaziale nella sua versione Maps. È a pochi minuti a piedi dall’albergo. Assediata da alberi, arbusti ed erbe esuberanti, m’appare uno dei grandi, decrepiti, fantasmi architettonici del fascismo rodiota.
Molte foto e video in rete, pochissime le informazioni sull’architettura e la storia. Posso testimoniare che lo stato di degrado è a dir poco vergognoso ed emblematico di un’incuria greca più generale nei confronti di molte architetture del periodo, le uniche per altro significative del Novecento. Altrettanto indubbiamente i luoghi dell’abbandono hanno un loro fascino, che s’amplificano nel silenzio e nella solitudine di oggi.
M’aggiro così di camera in camera, dal salone al balcone, immaginando gli effimeri fasti fascisti del passato e constatando le imperdonabili sciatterie rodiote del presente. Così faccio mio e trascrivo sul taccuino la frase scelta da un graffitista che ha disegnato in nero sul muro di una camera i profili di due epici viaggiatori.
È uno dei moniti che Don Chisciotte fa al suo scudiero: “To change the world, my friend Sancho, that is not madness, or utopia, rather justice”, cambiare il mondo, amico Sancho, non è follia o utopia, ma solo giustizia. Un’urgente ma fuggevole giustizia.