Rodi, Grecia - foto F. Fiori

Rodi, Grecia - foto F. Fiori

Protagonista continua ad essere la bicicletta, il "ferreo corsier", l'ardimentosa macchina ecologica che sta portando il nostro Fabio Fiori alle battute finali dell'esplorazione dell'isola di Rodi

17/05/2024 -  Fabio Fiori Rodi

Ieri 100 chilometri, oggi 80 previsti, ma un po’ più ripidi visto che il navigatore mi dice che saranno almeno ottocento metri di dislivello. Inoltre oggi avrò una decina di chilogrammi in più, perché porterò con me i bagagli, visto che mi trasferirò sulla costa nord, per ritornare poi a Rodi lungo la strada costiera. Il mio ferreo corsier, che anche la notte scorsa ha riposato in camera con me al fianco del letto, è pronto per portarmi lontano. Bicicletta! riservata, veloce, trasparente, un movimento d’aria, parafrasando Pablo Neruda che ne scrisse un’ode nel 1956.

Con aria fresca e sole incerto, di buon mattino, mi lascio definitivamente alle spalle Lindos, le sue case bianche, il suo castello, il suo tempio di Atena Lindia, dove ai sacrifici animali si sostituirono quelli vegetali, il suo mare di Cleobulo, uno dei Sette Sapienti che guardava e cantava il ciclico alternarsi della notte e del giorno, del buio e della luce. A lui era intitolata la piccola villa di Rodi, “una scatola di fiammiferi”, dove abitò Lawrence Durrell e nel cui giardino si riuniva con gli amici, leggendo e commentando anche i versi dell’antico poeta di Lindos.

Percorro la stessa strada costiera di ieri, fino al bivio per Vati, un villaggio a sette chilometri dal mare, in direzione della costa ovest dell’isola. Il sole prende coraggio e le ginestre, con le loro colorate e profumate fioriture, diventano le prime protagoniste del paesaggio. Sono le undici e decido di fermarmi per un caffè. Piccole case bianche costruite intorno alla Chiesa di San Giovanni.

Foto F. Fiori

Foto F. Fiori

Appena sceso dalla bici un pope mi viene incontro con fare festoso: “Kalós írthate, adelfós!”. Tunica nera lunga, sorridente e atletico. “Buongiorno!”, rispondo io togliendomi il casco. “Italiano! You come with me. O xáderfós mou… my cousin speak Italian”. Suo cugino è seduto al tavolo con degli amici e incredibilmente lo riconosco subito! Perché lo avevo già incontrato all’ufficio turistico di Rodi, qualche giorno prima.

Mi riconosce anche lui, è sorridente, ma meno espansivo del pope. Si scusa con la compagnia e viene a sedersi con me in un altro tavolo. Ordino due caffè e incominciamo una lunga chiacchierata che va da Rodi ad Amburgo, dove ha studiato all’università, dal presente al passato, che ha studiato occupandosi della storia medievale della sua amata isola.

È lui a rivelarmi per primo che Rodi non prende il nome dalle rose, ma dai fiori del melograno, che in greco si chiama proprio ρόδι, cioè ródi, parola che mi scrive sulla mia mappa dell’isola. Con grande amicizia e disponibilità mi porta a vedere la sua casa natale, dove ancora vive la mamma che ci offre un profumato bicchier d’acqua, menta e limone.

È una tradizionale casa ad arco, costruita dal bisnonno ai primi del Novecento, quando ancora Rodi era ottomana. Ha pianta quadrata, circa sei per sei metri, con un arco al centro che sorregge le travi del tetto. Spazio aperto con il camino su un lato, dove un tempo si cucinava e un soppalco perimetrale in legno, dove ci sono i tetti.

Vasilios è molto orgoglioso di quella piccola arca di memorie famigliari, così come della storia del villaggio e della chiesa ortodossa che mi porta a visitare. Ci fermiamo poi a chiacchierare al sole, su una panca addossata alla chiesa. In un inglese mediterraneo, farcito di parole greche, italiane, spagnole e francesi, mi racconta la storia della sua famiglia paterna contadina e delle grandi sofferenze del Novecento, con l’avvicendarsi della dominazione turca e italiana.

Italiani a cui però riconosce il merito di aver fatto molto, per scavi archeologici, restauri e tutela, in primis di Lindos e della città vecchia di Rodi. “Kaló taxídi fíle!”, buon viaggio amico, mi dice stringendomi la mano, prima di risalire in sella.

Da Vati in meno di 15 chilometri raggiungo il mare occidentale rodiota e di lì vado verso sud in direzione di Kattavia. Pedalo lungo la bella strada costiera, con il mare vicinissimo a destra, strette pianure e colline a sinistra. In parte coltivate, spesso con viti bassissime capaci di resistere al Meltemi estivo, in parte selvatiche, con garriga e macchia che si alternano.

Andata, fino a quando la strada piega verso l’interno per andare a Kattavia, e ritorno con sosta ad Apolakkia, dove pranzo. Un ottimo pranzo! in un tavolo sotto il pergolato della Taverna Manolis. Buonissimi i dolmadhakia, gli involtini in foglie di vite freschissime di riso e carne. Un piatto che ha cento nomi e varianti in tutti i paesi dell’ex-impero ottomano. Per finire, come spesso accade in Grecia, un piccolo omaggio di frutta: moúsmoula, cioè le gialle, dolci e acidule nespole giapponesi. Nespole che ogni giorno mi fermo a raccogliere e sono la mia ciclo-merenda rodiota, insieme a un paio di fichi secchi e qualche mandorla.

Riparto a metà pomeriggio, in direzione di Monolithos. Una quindicina di chilometri in salita, su una strada che attraversa inaspettate boscaglie di conifere. Sono entrato nel lato verde dell’isola, nel perimetro del monte sacro, l’Ataviros, da cui il principe cretese Altemene poteva vedere la sua amata isola natale, quella Creta che è il cuore del Mediterraneo orientale.

Ps

La poesia “Ode alla bicicletta” di Pablo Neruda introduce alla riflessione filosofica sul viaggio a pedali di Julien Leblay, che con questa ardimentosa macchina ecologica ha percorso decine di migliaia di chilometri. Riflessione che articola ne “Il Tao della bicicletta. Piccole meditazioni ciclopediche”, uscito in Francia nel 2010 e tradotto in italiano da Lorenza Stroppa, per i tipi di Ediciclo nel 2012. Leblay confessa subito che pedala “per ritrovare la strada e la solitudine, compagni fedeli che mi riempiono di buonumore da quando ho iniziato ad avere voglia di scoprire il mondo così, a caso”. Lebaly, nato nel 1981, è salito in sella da ragazzo per recuperare la salute, partendo poi per lunghissimi viaggi in Europa e poi pedalando le Ande, i Balcani e le Alpi meridionali. Una ciclo-erranza dove la meta diventa secondaria, perché “la strada è essa stessa un’astrazione, nutrendo di mille dettagli atipici la curiosità di colui che le presta attenzione”.