Preso per mano dalle memorie di Lawrence Durrell, il nostro Fabio Fiori continua il suo viaggio alla scoperta di Rodi con una visita a "paleocori", la città vecchia, dove lo aspetta un'eredità architettonica lussureggiante e un incontro con Venere "impreziosita dal mare"
Paleocori, la città vecchia, la città murata, quella fondata dagli antichi abitanti delle “tre città perdute”. La città patrimonio dell’Unesco, oggi mercificata ad uso turistico, tappa obbligata delle grandi navi da crociera che approdano poco lontano.
Furono gli italiani a immaginare e avviare la nuova economia dell’isola, a partire proprio dalla città, “gioiello d’arte da paragonarsi alle più celebrate città italiane”. Più in generale, “La visita delle Isole Egee appartenenti all’Italia è oggi un dovere per qualunque italiano colto e costituisce un impareggiabile viaggio”, scrivevano con enfasi nazionalista i curatori della Guida Rossa del Touring, dedicata a “Possedimenti e Colonie”, uscita nel 1929.
Ma la mia visita alla città vecchia ha un preambolo necessario, un piccolo pellegrinaggio laico a Villa Cleobulo, lì dove visse il mio Virgilio rodiota: Lawrence Durrell. La trovo chiusa, il giardino rinselvatichito. Una lapide ricorda la sua permanenza, in quel luogo magico dove faceva “chiacchiere tranquille, che non portano da nessuna parte, se non alla conferma di una felicità pacata come questo giardino immerso nell’ombra, pregno dei profumi dei fiori, del caffè, del fumo del tabacco, sciolti nella luce del primo sole”.
Un villino costruito probabilmente nei primi decenni del Novecento, all’interno del giardino, ex-cimitero, che circonda la moschea di Murad Reis, risalente al XVII secolo. Ed è proprio passeggiando nel malinconico e silenzioso cimitero che la scopre Durrell, “sepolta tra gli alberi che la sovrastano e nascosta da una triplice cerchia di oleandri e rododendri… Non è una casa, è una scatola di fiammiferi, ma in una posizione di una bellezza inimmaginabile così vicina a quell’orrendo albergo”.
L’albergo in questione è l’Albergo delle Rose, oggi casinò, inaugurato nel 1926, in stile “orientale, gaio e fantasioso”, ma negli anni successivi rivisitato in forme più cupe.
L’ex-cimitero, come la moschea, sono chiusi e così mi perdo quel luogo incantato, che andrebbe riscoperto, anche per celebrare un’isola che “ha trasformato l’Islam e lo ha reso parte dell’identità dolce e verde dell’isola”, scrive Durrell.
Raggiungo la città vecchia in bici in pochi minuti ed entro a piedi dalla piccola, turrita Pyli Thalassini, Porta Marina, con il mio ferreo corsier al seguito. Le mura sono imponenti, circondate da un fossato che in molti punti è stato trasformato in un orto-giardino delle meraviglie. Palme e oleandri, agrumi e fichi, che crescono su tappeto verdissimo, lucente e fiorito, in questi giorni d’aprile.
Mura monumentali, costruite dai Cavalieri Ospitalieri a partire dal XIV secolo sulle preesistenti mura bizantine. Una ciclopica mezzaluna di pietra, con gobba a levante, che proteggeva da terra il cuore pulsante della roccaforte della cristianità.
Strade, vicoli, piazze e palazzi sono stati restaurati o ricostruiti dagli italiani durante l’occupazione, anche in maniera fantasiosa. Tra questi il più imponente è il Castello, “vero e proprio monumento al cattivo gusto realizzato dall’ultimo governatore italiano”, scrive Durrell e non posso dargli torto.
Al contrario mi sembra pregevole il restauro dell’ex-Ospedale dei Cavalieri, così come le necessarie trasformazioni e aggiunte architettoniche. Costruito a partire dal 1440, era destinato all’alloggio e alla cura dei pellegrini, ha un'austera facciata a due piani, con ampi spazi coperti e scoperti. Divenne Museo Archeologico nel 1916, sempre per volere dell’amministrazione italiana, e conserva decine di migliaia di oggetti d’arte ritrovati sull’isola e in quelle limitrofe.
Irresistibile attrazione, ampiamente soddisfatta, è la Venere rodia, amata ed elevata a musa da Durrell. Di fronte a lei ci s’incanta, soprattutto se con lei si condivide la passione per l’acqua salata, per i piaceri che il mare regala. Perché questa piccola Venere nuda d’alabastro, inginocchiata, si asciuga i capelli girandosi, io immagino a guardare il mare prodigo di gioie. Di certo le sue forme sinuose sono opera congiunta di sconosciuta, raffinata mano artistica e di certa, armoniosa cura acquea. Perché la Venere è stata per duemila anni protetta e accudita dalle acque portuali rodiote.
Perciò, a differenza di quanto hanno scritto gli archeologi, “statua danneggiata dall’acqua di mare”, Durrell per primo che la vide uscire dalla cassa in cui era stata chiusa per proteggerla dalla guerra e io oggi che continuo a girarle introno come in un rito iniziatico, vi possiamo assicurare che è stata impreziosita dall’acqua di mare, che l’ha amorevolmente abbracciata per millenni. La Venere Marina è il genius loci dell’isola, è la nostra dea pelagica.
Ps
Riflessi di una Venere Marina. Una guida al paesaggio di Rodi, scritto dall’inglese Lawrence Durrell e pubblicato nel 1953, tradotto in italiano da Luisa Corbetta nel 1993 e oggi purtroppo fuori catalogo, è ancora il più documentato e piacevole travel book dell’isola. Scritto a partire da esperienze, incontri e materiali raccolti direttamente sull’isola nell’immediato dopoguerra, dove lo scrittore arrivò al seguito dell’esercito britannico, intreccia il suo innamoramento per l’isola delle rose con vicende presenti e passate. Un libro che con taglio narrativo mi ha prima ispirato e poi accompagnato nella mia pedalata rodiota, facendomi rivivere le atmosfere festose e melanconiche di un variegato circolo di “isolomani, discendenti diretti degli abitanti di Atlantide”. Per chi voglia approfondire la biografia di Durrell e il suo lavoro, si rimanda alla omonima Società, https://lawrencedurrell.org/