“Tefteri” di Vinicio Capossela è un libro scritto con passione per la materia - ovvero il rebetiko, il genere per eccellenza della musica greca - e che commuove anche per l’amore nei confronti della Grecia che emerge prepotente. Una recensione
L’ultimo CD di Vinicio Capossela “Rebetiko Gymnastas”, che si avvale degli accompagnamenti dei greci Vassilis Massalas (chitarra), Manolis Pappos (buzouki), Ntinos Hatziiordanou (fisarmonica) ha una preparazione che ritroviamo in un libro di straordinario interesse, “Tefteri”, edito da Il Saggiatore nella rinata collana de le Silerchie.
Un libro scritto con passione per la materia - ovvero il rebetiko, il genere per eccellenza della musica greca - e che commuove anche per l’amore nei confronti della Grecia che emerge prepotente. Non a caso, il sottotitolo è “Il libro dei conti in sospeso” e questi sono quelli che noi, italiani ed europei, abbiamo nei confronti della Grecia, e che il cantautore ricorda nel corso di questo diario di due viaggi nel paese: il primo nel corso della Pasqua ortodossa del 2012, il secondo delle elezioni politiche dello stesso anno. Basta una frase, in risposta a ciò che da noi si ripeteva come un mantra “Non siamo la Grecia” o “Non faremo la fine della Grecia”, perché Capossela scriva: “Che peccato. Infatti non siamo la Grecia. Per questo ne abbiamo bisogno.”
Il rebetiko
Il rebetiko è la chiave di volta del viaggio, perché con il rebetiko si entra nel corpo vivo del paese, di un paese che l’Europa a trazione delle banche, del capitalismo finanziario, del consumismo fine a se stesso ha cercato di cancellare e il cui sintomo è rappresentato proprio dalla messa in sordina di questa musica. “La Grecia ha perduto i suoi piatti spaccati e le sue sigarette Santè” scrive Capossela, il quale nel suo taccuino annota tutto, incontri, dialoghi,
impressioni, ricerche musicali con il gusto per l’etimologia delle parole, che diano un senso al tutto. “Rebetika, forse viene dalla nota re. Sono infatti quasi tutte canzoni in re, e in re-la-re è accordato il buzuki. Basta suonare a corde aperte, in re, per essere nel re-bet. Ela re! Si dice. La via rude, di strada, per chiedere come va”.
Ed è su questa strada che passa la salvezza della Grecia. Un greco, tra i tanti che Capossela incontra nelle taverne di Atene, Creta e Salonicco gli dice: “Praticare il rebetiko oggi è un modo di uscire dal girone delle discoteche, dei club, dal meccanismo che c’è dietro. Dalla pubblicità delle mode giovanili. Trovarsi a casa. Stare nel proprio. Con una musica che parla di te, e non di qualcuno che non conosci nemmeno”.
Raccontare un paese
La maestria di Capossela è quella di saper raccontare un paese come la Grecia entrando nel vivo delle sue tradizioni non solo musicali (bellissima, ad esempio, la descrizione della cerimonia del venerdì santo, attorno all’Epitaffio), dei suoi problemi, di ciò che ha perso e tenta di recuperare. E lo fa stando ben attento a individuare un percorso di libertà, contro quanti in nome delle tradizioni e dell’identità sconfinano in un pericoloso nazionalismo, in particolare quello sul quale soffiano i nazisti di Krisi Avghi, di Alba Dorata.
I grandi rebetes con cui parla sembrano esserne consapevoli. Gli dice Fivos, a sua volta figlio di un grande rebete: “La musica può essere una forma d’identità. Però attenzione: c’è chi l’identità la cerca a mezzo della musica, chi a mezzo della storia. E allora arrivano i casini. Per esempio, il nazionalismo. Contro l’immigrazione, contro i tedeschi. E la destra estrema sta salendo. Pericolosamente. Il nazionalismo. La pulizia della razza. La Megali Idea. La conosciamo bene. Non furono solo i turchi a fare macellerie”.
Capossela ritorna spesso sull’argomento, perché sono gli incontri stessi che fa a riportarlo. Ed è su questo filo di rasoio, di una Grecia che guarda nel profondo di se stessa, alla sua verità di popolo che da sempre spazza i suoi problemi con la festa, con la musica e il vino e che in questi ultimi anni ha dimenticato dietro ai falsi miti di una felicità comprata a credito. “Per anni ci hanno riempito di suv, di vestiti firmati. Di cazzate e di prestiti. Per vivere sopra le nostre possibilità, ora non sappiamo chi siamo. Cosa siamo. Ti hanno fatto assaggiare la roba e ora sei sotto. Sei schiavo. Il problema è culturale”.
Musicisti
Una Grecia smarrita dietro locali trasformati dal kitsch di una cultura importata, una sottocultura, figlia anche di una cattiva televisione. E la cultura omologata alla quale il paese si è sottomesso. E allora: rebetiko. E la ricerca delle taverne dove lo suonano ancora. Annota Capossela: “Quale differenza passa tra una taverna e un ristorante? Che nella taverna il cibo fa parte del convivio, quindi quando si mangia si parla e a volte si suona. La musica è qualcosa di cui cibarsi in comune, come le altre cose che vengono servite al tavolo. La taverna è la ristorazione ricca di umanità, povera di prezzo. Ma cos’è che ci fa ricchi e cosa poveri? La ricchezza a volte è ciò che rischia di farti diventare povero. E’ ricchezza avere l’aria condizionata, avere posti puliti dove stare in silenzio, o è ricchezza avere posti dove c’è anche sporcizia, ma c’è umanità, convivio e c’è musica?”
E c’è, nel caso di questo “Tefteri”, tutta la sapienza musicale di Vinicio Capossela che a poco a poco svela questa musica, con la sua storia, i suoi musicisti, Vamvakaris, Tsitsanis, Papaioannu, i suoi cantanti, Katzanzidis, Dallaras, i suoi strumenti. “Il buzuki. Il vero buzuki è a tre corde, non a quattro” scrive “ha una disposizione delle corde simmetrica. Re-la-re. Di modo che è lo stesso suonarle dall’alto o dal basso. Si suppone che sia uno strumento occidentale, perché ha i capotasti. Ma non lo puoi suonare così. In realtà è un incrocio tra Oriente e Occidente, come la Grecia. E’ questo il bello, avere due cose. Essere due cose. E di nuovo il dilima”.
E sta in questa doppia natura, presente un po’ in ogni cosa, a cominciare da quella di esorcizzare il dolore e la malinconia con la festa, con lo spasimo che li porta a danzare, magari solitari, accompagnati dal battito delle mani degli amici, e a rompere il piatto, la forza che li spinge a essere contro tutto e tutti. “A me piace questa musica perché fa male” confessa Capossela “E perché mi fa sentire vecchio, e poi perché si riceve da seduti al tavolo, come l’eucarestia, e la chiesa è la taverna. E perché è una musica che non invita a essere migliori, ma solo a essere se stessi. Per questo è anticonvenzionale. Si ribella a tutto quello che finisce per occultarci a noi stessi. E’ musica individualista per ribelli senza rivoluzione. E’ musica verso la quale ho dei conti in sospeso, per questo sono venuto qui”.
Ela re, manghes. Pame!