Quella kosovara è una cinematografia giovane e in forte espansione, molto dinamica nonostante una produzione numericamente limitata. E, caso unico nel panorama internazionale, le protagoniste di questa onda sono in maggioranza registe donne
È stato l'anno del cinema del Kosovo. La cinematografia più giovane d'Europa è diventata una delle più dinamiche e in vista degli ultimi tempi. Nonostante una produzione numericamente limitata, anche se si è attestata a una decina di lungometraggi l'anno, è stata protagonista in tutti i maggiori festival del 2021. Il culmine di un processo di crescita in corso da alcuni anni, seppure non ancora notato dal grande pubblico: in Italia nessuno di questi film è stato ancora distribuito. “Hive”, esordio di Blerta Basholli, ha vinto ben tre premi al prestigioso Sundance Festival con il Gran premio della giuria e il premio del pubblico nel concorso World Cinema. Al Festival di Rotterdam il Premio della giuria è andato a “Looking for Venera” di Norika Sefa, un'altra esordiente.
Al Festival di Cannes, nel concorso cortometraggi era presente “Pa vend”, secondo corto di Samir Karahoda e prima produzione kosovara a concorrere per una Palma d'oro. Nella selezione della Quinzaine des realisateurs figurava invece “Luaneshat e kodrës - The Hill where Lionesses Roar”, esordio nel lungometraggio di Luàna Bajrami. E alla Mostra di Venezia è stato selezionato “Vera dreams of the Sea” di Kaltrina Krasniqi nella sezione Orizzonti.
Nelle scorse settimane il secondo Balkan Film Festival di Roma ha ospitato un Focus Kosovo con la proiezione di tre film: “Zana” di Antoneta Kastrati, “Andromeda Galaxy” di More Raça e “Cold November” di Ismet Sijarina.
Traguardi raggiunti da uno stato di neppure due milioni di abitanti nato ufficialmente nel 2008, ma che non nascono dal nulla, bensì da investimenti mirati da parte del Kosovo Cinematography Center istituito nel 2004 e con il sostegno delle istituzioni europee. La produzione nazionale, comprese le coproduzioni con i paesi vicini che incidono per una quota molto significativa, è cresciuta fino a oltre 10 lungometraggi l'anno, portando all'esordio diversi registi. Tra corti, lunghi e documentari, ma per ora la finzione prevale, il numero complessivo di opere cresce di anno in anno. Il cinema è certamente una delle riuscite di uno stato che ancora non è riconosciuto ufficialmente da tante altre nazioni e cui restano molte cose da mettere a posto. Per certi versi è la ripetizione del caso Bosnia nel primo decennio del secolo, con diversi riconoscimenti culminati nell'Oscar a “No Man's Land” di Danis Tanović. In comune con la situazione bosniaca ci sono le tematiche: entrambi i cinema sono stati e sono l'elaborazione di un enorme trauma collettivo (il Kosovo con un ritardo maggiore, dovuto anche alla mancanza di una struttura produttiva). La cosa curiosa è che il cinema riesce a essere più forte della politica e ci sono casi di film prodotti con paesi, come la Spagna, che non hanno riconosciuto l'indipendenza del Kosovo.
Alla crescita del movimento kosovaro hanno contribuito anche i festival, come i più noti PriFilmFestival di Pristina (nato nel 2009) o Dokufest di Prizren (sorto nel 2002), ma anche l'Anibar festival di animazione e il Ferfilm di Ferizaj. Un piccolo contributo l'ha dato “Il matrimonio di Lorna” (2008) dei fratelli Dardenne, uno dei primi film con una certa visibilità a parlare di Kosovo (c'era stato anche “Tout un hiver sans feu” dello svizzero-polacco Greg Zglinski nel 2005), che ha rivelato gli attori Arta Dobroshi e Alban Ukaj.
Balza subito all'occhio, e fa del Kosovo un caso unico nel panorama internazionale, che le protagoniste di questa onda sono in maggioranza registe donne. Un fatto che può trovare spiegazione nel partire quasi da zero e nell'intraprendenza di una generazione di aspiranti registe. Il tema dominante nei film recenti è costituito dalla guerra del 1999 e le sue conseguenze che arrivano fino a oggi. E ricorrente è la lotta di tanti personaggi, soprattutto donne e outsider, contro una società tradizionale, chiusa e conservatrice. Non si tratta di film bellici, bensì di storie intime e personali di persone comuni la cui esistenza è stata segnata dal conflitto. E colpisce l'assenza del "nemico", i serbi non si vedono quasi mai.
Il primo film in albanese risale al 1968, significativamente l'anno delle prime proteste per “l'autodeterminazione” nell'allora provincia autonoma all'interno della Federazione jugoslava che avrebbero portato a maggiore autonomia nel 1974. Si tratta di “Uka i Bjeshkeve te nemura - Wolf of Prokletije” di Miomir Miki Stamenković con Ljuba Tadić e Faruk Begolli: la storia drammatica di Uka (che significa Lupo), un anziano che vive sulle montagne al confine tra Kosovo e Albania, un uomo rispettabile che deve fare i conti con il figlio, il quale durante la II Guerra mondiale aveva simpatizzato con gli occupanti fascisti.
Girati in Kosovo c'erano già stati due film di Živorad Žika Mitrović, regista serbo noto soprattutto per “Marš na Drinu” e “Užička republika”: “Kapetan Leši” (1960, uscito in Italia come “Boris, il leggendario macedone”) nella Prizren occupata dai nazisti e liberata dai partigiani nel 1944 e definito da Sergio Grmek Germani “esotismo kosovaro”; “Brat doktora Homera – Il fratello del dottor Omero” (1968) (in Italia con il titolo “Ancora un passo... e pregherai il tuo Dio!” come fosse uno spaghetti western) ambientato nel Kosovo post bellico del 1945.
Il primo albanese a esordire alla regia fu Ekrem Kryeziu, nato a Peć/Peja e studi a Belgrado, che era già stato assistente di Stamenković. Ha lavorato a teatro, per la televisione, ha realizzato documentari e lungometraggi, facendosi notare con il mediometraggio “The Trapped Ones” (1971). Con “Biting the Darkness” vinse il Prix Italia 1978, seguirono “When Spring Comes Late – Kur pranvera vonohet” (1979), storia della guerra partigiana in Kosovo dai diari di Fadil Hoxha e scritta con Živojin Pavlović, “The White Traces” (1980) e “Love in the Damned Mountain” (1997), fino a “The Code Of Life” (2012). Kryeziu diresse spesso Faruk Begolli, l'attore kosovaro più famoso insieme a Bekim Fehmiu, noto in Italia soprattutto per essere stato l'Ulisse del celebre sceneggiato televisivo.
Altra personalità attiva dagli anni '70 come regista, sceneggiatore e produttore è Besim Sahatciu. Nel 1984 debutta Agim Sopi, uno dei pochissimi che hanno attraversato sia il periodo jugoslavo sia il Kosovo indipendente.
Il padre del cinema attuale si può riconoscere in Isa Qosja, attivo dagli anni '70 con cortometraggi e documentari e autore di due importanti lungometraggi negli anni '80, “Proka” (1985) con Faruk Begolli e “Rojet e mjegulles - Custodi della nebbia” (1988). Qosja torna alla regia nel 2004 con “Kukumi” che costituisce la prima produzione indipendente kosovara e ricevette il premio speciale della giuria al Sarajevo Film Festival 2005. Ambientato nei mesi successivi all'accordo di Kumanovo del 9 giugno 1999, è una metafora, tragicomica, originale e folle, del buco nero del Kosovo post bellico.
Pochi anni dopo si colloca “Three Windows And A Hanging – Tri dritare dhe nje varje” (2014): la vita è ricominciata, anche se il tempo pare essersi fermato per una società molto tradizionale. La maestra Lushe confessa solo a una giornalista straniera (la serba Mirijana Karanović, non nuova a ruoli difficili) di essere stata violentata da soldati serbi insieme ad altre tre donne del villaggio pochi giorni prima dell’inizio dei bombardamenti della Nato. Uno spunto analogo è utilizzato in “Shpia e Agës – Aga's House” (2019) di Lendita Zeqiraj: l'arrivo di una giornalista fa emergere la verità, come se per smuovere le cose fosse sempre necessario un elemento esterno e imprevisto.
Uno dei momenti chiave nella breve storia del cinema kosovaro è costituito dal corto “Exit” (2004) di Lendita Zeqiraj e Blerta Zeqiri, che vede il debutto congiunto di due registe che, pur separandosi artisticamente, si sono affermate tra le voci più importanti del cinema kosovaro. È la storia di tre amici che si nascondono in un appartamento durante la guerra, con poco cibo, scarsità di informazioni e il problema di cosa fare per uscire da quella situazione.
Il passo successivo di Blerta Zeqiri, dopo aver realizzato anche il corto “The Return - Kthimi” nel 2012, è il lungometraggio “Martesa - The Marriage” (2017) con Alban Ukaj, Adriana Matoshi e Genc Salihu, al quale hanno collaborato anche Zeqiraj e Basholli. Per le statistiche è il primo film del Kosovo con tematica omosessuale, ma il suo valore non si limita a questo: ancora c'è una riflessione sulla guerra e le sue conseguenze, un'elaborazione della perdita e una critica della società.
Lendita Zeqiraj, dopo “Exit”, si è fatta notare con l'altro corto “Ballkoni – Balcone”, presentato alla Mostra di Venezia nel 2013, prima del debutto nel lungometraggio “Aga's House”, uno dei più bei film kosovari, ambientato in un villaggio remoto, in una casa tutta di donne alle prese con una precarietà esistenziale.
Tra i primi film realizzati in Kosovo c'era stata anche la simpatica commedia "Donkeys of the Border" (2008) esordio di Jeton Ahmetaj, ispirata a un fatto realmente accaduto: nel 1968 un asino albanese scappa e attraversa la frontiera con la Jugoslavia mettendo in subbuglio entrambe le parti.
Un ruolo di rilievo nel far conoscere il nascente cinema del paese l'ha rivestito anche una produzione anglo-kosovara, il corto “Shok - Amico” scritto e diretto dall'inglese Jamie Donoughue, sempre ambientato durante la guerra, che ha circolato in diversi festival ed è stato nominato all'Oscar nel 2016.
Si è affermato internazionalmente anche Visar Morina, kosovaro trasferito in Germania che ha realizzato due lungometraggi in coproduzione tra i due paesi dopo il corto “Of Dogs And Wall” Paper” presentato al Festival di Locarno 2013. Per il suo esordio “Babai – Daddy” è stato premiato come miglior regista al Festival di Karlovy Vary nel 2015, mentre il successivo “Exile - Exil” (2020), un thriller psicologico che tratta l'emigrazione in maniera originale ha vinto il 26° Sarajevo Film Festival, per poi essere scelto a rappresentare il Kosovo agli Oscar.
“Zana” (2019) di Antoneta Kastrati, presentato in diversi festival e candidato all'Oscar, è ambientato in un villaggio vicino a Peć/Peja e dieci anni dopo la guerra. Lume (Adriana Matoshi, una delle attrici più attive e più rappresentative) deve affrontare il trauma, tra incubi e pressioni della suocera per avere un figlio. La regista esordiente racconta come è difficile guarire dalla guerra, in un paese che cerca di superare il passato e una società chiusa e legata alle tradizioni.
Dopo i corti “Amel” del 2014, “Home” del 2016 ed “Her” del 2018, More Raça ha debuttato nel lungometraggio con “Andromeda Galaxy” (2020). Un disoccupato vedovo cerca in tutti i modi di crescere la figlia nonostante inganni, truffe e promesse vuote, ma forse l'unica soluzione è emigrare. Un film minimalista e delicato, efficace nel definire i rapporti tra i personaggi e con poca speranza di un futuro in Kosovo.
Uno dei pochissimi film a raccontare gli anni '90 è “Cold November” (2019) di Ismet Sijarina, il cui titolo riprende una canzone popolare cara al protagonista. Il prologo è a Pristina in una fredda mattina d'inverno del 1991: il docente albanese Fadil dà un passaggio in auto al vicino serbo Nikola (che inneggia a Milosević) in un apparente rapporto di buon vicinato. Trascorre un anno e Milosević ha soppresso l'autonomia del Kosovo dentro la Jugoslavia: Fadil e la moglie Hana devono decidere da che parte schierarsi, se rinunciare al lavoro e come mantenere i figli e il padre malato. Diventerà “Fadil il traditore”, preso di mira da tutti e tormentato da molti dilemmi.
Si arriva ad “Hive” esordio di Blerta Basholli (autrice del corto “Lena and Me”) vincitore al Sundance 2021, storia di un'altra donna, Fahrije, che ha perso il marito durante la guerra e deve provvedere ai figli e sfidare una società che non la sostiene. E a “Looking for Venera” di Norika Sefa premio speciale della giuria a Rotterdam nel 2021 che mette a confronto generazioni diverse intorno alla taciturna adolescente Venera in un piccolo villaggio. Diplomata alla scuola Famu di Praga, la regista si era già segnalata con i corti “Cheers” (2015), “Flutter” (2016) e “Kiss Me, Now” (2020).