Nel conflitto in Kosovo si riscrissero i precari confini nell'ambito giuridico internazionale dell’umanitario e della guerra. Un commento
(Quest'articolo è stato originariamente pubblicato da La rivista il Mulino il 31 marzo 2021)
Cosa resta oggi nelle relazioni internazionali della guerra che la Nato ha combattuto nella primavera del 1999 contro la Serbia di Slobodan Milošević? Di quell’intervento militare, che per molti versi ha riscritto la Storia stabilendo un nuovo principio, una sorta di preambolo non scritto rispetto al testo della Carta Onu: davanti a violazioni gravi, su larga scala e sistematiche dei diritti umani, l’intervento militare umanitario da parte della comunità internazionale era più che legittimo. Non era la prima volta che la Nato, in cerca di una nuova missione dopo la fine del Patto di Varsavia, agiva fuori dai confini segnati dal proprio essere un’alleanza difensiva. Nell’estate del 1995 bombardamenti mirati sulle forze serbe, che cingevano d’assedio Sarajevo, avevano aperto la via per la pace, firmata infine a Dayton. Lungo questa strada, mentre tutti si sforzavano di guardare altrove, quell’estate era stato compiuto, fra gli sfollati ammassati a Srebrenica, il peggior massacro che l’Europa ricordi dalla Seconda guerra mondiale: «pessimum facinus auderent pauci, plures vellent, omnes paterentur», avrebbe chiosato Tacito.
Ma non era più il 1995, eravamo nel 1999, c’era un tribunale per i crimini commessi nell’ex Jugoslavia, e di lì a poco si sarebbe parlato della dottrina Responsibility to protect (divenuta nota con la sigla R2p). La medesima dottrina che sarà invocata dalla Nato per bombardare nel 2011 le colonne militari messe in moto dal colonnello Gheddafi per reprimere nel sangue la rivolta di cui la città di Bengazi era l’epicentro. Di quella dottrina si sarebbero presto perse le tracce. Già pochi mesi dopo, si sarebbero raccolte le ceneri in Siria, davanti alla ferma opposizione russa e cinese ad arrestare la feroce repressione, prodromo della guerra che ancora divora il paese dieci anni dopo.
Ma torniamo al 1999. Il 24 marzo la macchina da guerra atlantica lancia una campagna di bombardamenti di 78 giorni - gli aerei partono carichi di bombe dalla base di Aviano - vincolata a un principio: "Mai più un’altra Bosnia", si dice. "Mai più rifugiati all’addiaccio nei boschi, in fuga dalla pulizia etnica". Dei fatti che seguirono, sul versante umanitario posso dare testimonianza personale. Proprio il 31 marzo 1999 l’inviata della Cnn, Christiane Amanpour, si trovava a Kukes, sulle montagne del nord dell’Albania al confine con il Kosovo. E, dando le spalle a militari occidentali e personale umanitario, trasmetteva al mondo testimonianze raccolte fra le migliaia di rifugiati che affluivano, ogni giorno di più, attraverso il posto di frontiera. Erano luoghi ancora pattugliati dalle guardie di frontiera di Slobodan Milošević, che chiedevano documenti e raramente li restituivano. L’Albania aveva aperto i confini, mentre era incerta la situazione sul confine della ex Repubblica Jugoslava di Macedonia (Fyrom, secondo l’acronimo inglese con la quale è riconosciuta dalle Nazioni unite, per via dell’ostilità greca all’impiego «abusivo» del nome della dinastia dei Makedon).
Dopo gli anni della resistenza non-violenta al controllo manu militari di Belgrado sulla provincia, dopo un anno di scontri armati che avevano visto le forze di Belgrado colpire significativamente il neonato Esercito di liberazione del Kosovo (Uçk), era fallita, come prevedibile, la tregua invernale e il mondo seguiva la guerra umanitaria lanciata dalla Nato, nell’imminenza del suo cinquantesimo compleanno (4 aprile). E lo faceva attraverso una campagna di bombardamenti dai cieli della Serbia, rimasta in controllo di un moncone di Jugoslavia che includeva il Montenegro e il Kosovo. Erano giorni di confusione sul terreno e di propaganda bellica sui media: il governo italiano, che forniva pieno appoggio all’operazione, si spinse a parlare di 100.000 morti, una cifra che si mostrerà priva di ogni fondamento. Slobodan Milošević aveva annunciato che le bombe alleate avrebbero provocato il disastro umanitario, invece che prevenirlo. Ed ora eccoli lì, i rifugiati, che si profilavano all’orizzonte, attraverso un vallone che si apriva sulla piana di Blace, a pochi chilometri dalla capitale macedone Skopje.
Lungo la strada c'erano postazioni militari di osservazione con personale italiano in divisa, famiglie che camminavano ai bordi della strada, troupe televisive in cerca dell’ormai conclamato CNN effect, rari scampoli di personale umanitario: quello che si stagliava all’orizzonte, in quel 31 marzo, non erano più i rivoli di rifugiati dei giorni precedenti, ma un vero e proprio fiume in piena. Erano stati minacciati e spinti dalle forze di Milošević su treni speciali inviati verso il confine, dicevano. Non arrivavano con i trattori o mezzi di fortuna, erano a piedi con coperte, borse, figli in braccio. Si fermavano, migliaia su migliaia, nel grande campo antistante la riva su cui passa la strada asfaltata.
L’elemento religioso non ha mai permeato la lotta di liberazione nazionale dei kosovari. Se i fratelli di Albania avevano fama di essere poveri, quelli di Macedonia godevano della fama di essere i più conservatori e tradizionalisti. Ma ora, gli sfollati si trovavano davanti le ambulanze di el Hilal, organizzazione umanitaria sostenuta dai paesi del Golfo. Stanchi e in lacrime, sembravano disorientati davanti ai paramedici che esibiscono la barba islamista. Sopravvissuta senza esercito e senza sparare un colpo alla dissoluzione della federazione jugoslava, la piccola repubblica della Macedonia del Nord temeva d'altra parte di essere travolta da quell'ondata: animati da albanofobia, i nazionalisti sentivano odore di scontro e affilavano le armi in vista di una vittoria contro i socialdemocratici. Nella città macedone di Tetovo regnava un clima di militarizzazione senza divise, in cui ciascuno sembrava sapere cosa fare secondo gerarchie emergenziali: si smistavano i rifugiati nelle case, mentre nel resto del paese vedevano costruire per la prima volta campi per rifugiati recintati con reti metalliche, da cui era proibito uscire. Nella capitale Skopje, la divisione spesso taciuta fra la parte moderna della città e quella storica del Pazar, oltre il fiume Vardar, popolata da caffè e negozi gestiti da cittadini albanofoni, diventava ora visibile.
Era questo, dunque, il triangolo fra la Grande Serbia, la Grande Nato e la Grande Albania. Ricordo che un leader di comunità, che nell’anticamera aveva sauditi e turchi in aperta rivalità, mi disse in quei giorni che per quella volta sarebbe stato tutto tranquillo, bisognava aiutare i fratelli del Kosovo, ospitarli e sostenerli perché tornassero a liberare le loro terre, ma che presto si sarebbero fatti i conti anche in Macedonia. E in effetti, la guerra sarebbe scoppiata anche lì, due anni dopo.
Nel giro di una settimana l’accampamento di Blace, arrivato a contare diverse decine di migliaia di sfollati, venne poi sbaraccato dalle forze Nato nel giro di una notte, lasciando sul prato un cimitero di buste di plastica e rifiuti. Iniziava il ponte umanitario che sollevava la Macedonia dal peso di essere la linea di frontiera per centinaia di migliaia di rifugiati. Già anni prima, incalzata dalla mobilitazione diffusa della società civile, l’Italia aveva adottato provvedimenti legislativi per accogliere i rifugiati dalle guerre nei territori dell’ex Jugoslavia. Ora, in quella primavera del 1999, i paesi europei si divisero quote di rifugiati, ospitandoli per il tempo necessario. Quasi tutti avrebbero fatto ritorno. Non era ancora chiaro come, ma dietro a questa mobilitazione internazionale si stavano riscrivendo i precari confini dell’umanitario e della guerra. Molti diffidavano, qualcuno lo temeva. Nel solo Kosovo quella campagna di guerra avrebbe prodotto un milione di persone in fuga, fra sfollati interni e rifugiati oltre confine. Appena concluse le ostilità i militari russi si sarebbero precipitati a occupare l’aeroporto della capitale della provincia, Pristina – rischiando lo scontro con gli americani. In qualche modo, è l’alba di Vladimir Putin in Russia. Molte cose sarebbero cambiate, nei vent’anni successivi. Ma nessun bambino, nessun aspirante alla protezione umanitaria, fra le centinaia di migliaia che passarono per Blace quel 31 marzo, sarebbe morto annegato nel Mediterraneo fra indifferenza e sbeffeggi xenofobi sui social media.