Berane, 2001 - foto di Davide Sighele

Berane, 2001 - foto di Davide Sighele

Fuggiti dalle loro terre in Kosovo nel 1999, per loro il Montenegro è stato un rifugio, prima di diventare un vicolo cieco, una trappola. Venti anni più tardi, non hanno ancora alcun diritto e sopravvivono come ombre amministrative, respinti da Pristina, Podgorica e Belgrado. Reportage

(Pubblicato originariamente da Le Courrier des Balkans il 4 aprile 2019)

"Quando siamo scappati dal Kosovo, siamo passati da Rožaje, ma non c'era posto per noi. La prima città dove ci siamo potuti sistemare era Berane. Siamo ancora qui". Ljubiša Trifunović mescola il caffè mentre con lo sguardo vaga fuori dalla finestra della cucina. Il quartiere che accoglie i rifugiati serbi del Kosovo è sorto nel 2004: si tratta di piccoli immobili di due piani finanziati da fondi internazionali, si trovano poco sotto il monastero di Đurđevi Stupovi, sulle alture che dominano Berane.

L'edificio religioso, fondato dal principe Stefan Nemanja alla fine del secolo XII, era in pieno restauro all'inizio degli anni 2000 e la vita monastica vi era appena stata ripresa, dopo decenni di interruzione. I monaci che ci vivono, certo, sperano di aver firmato un contratto con l'eternità, ma i rifugiati, invece, rischiano di ritrovarsi alla porta alla fine di quest'anno: il contratto di locazione prevedeva che i rifugiati potessero occupare gli alloggi senza pagare l'affitto solo per quindici anni, fino al 2019. Dunque, il futuro si preannuncia incerto giacché poche delle quaranta famiglie che vivono nel complesso possono permettersi di assumersi nuove spese.

“Siamo partiti l'11 giugno 1999 da Klina, con l'ultima ondata di serbi in fuga dal Kosovo. La NATO aveva cominciato a dispiegarsi. Noi non avevamo ricevuto minacce, ma tutti se ne andavano: l'amministrazione, la polizia, i nostri vicini. Come restare, quando la guerriglia albanese era già entrata in città?”. Il Montenegro appariva allora come un'oasi relativamente sicura: oltre a ricevere un alloggio, i rifugiati erano presi in carico dall'Alto commissario delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr), i bambini venivano mandati nelle scuole montenegrine... Del resto, in un primo momento, i serbi del Kosovo non erano dei rifugiati, ma degli "sfollati interni" in un paese che stava scomparendo: la Repubblica federale della Jugoslavia, che, all'epoca, riuniva Serbia, Montenegro e Kosovo.

È con il tempo che tutto è peggiorato. L'Unhcr ha smantellato i propri uffici in Montenegro, poco dopo quest'ultimo ha dichiarato la propria indipendenza, nella primavera del 2006. Infine, due anni dopo, i serbi del Kosovo hanno addirittura perso il loro status di rifugiati. Oggi sono nella trappola delle frontiere, bloccati nella piega della cartina geografica. Hanno un "passaporto" rilasciato dal Commissariato per i rifugiati della Serbia ma questo documento non dà loro il diritto di risiedere in Serbia o in Montenegro ma non ad esempio di ricevere visti per paesi stranieri. Se volessero tornare in Kosovo, dovrebbero presentarsi in loco per richiedere dei nuovi documenti di identità. "Siamo bloccati tra tre paesi, siamo dei cittadini di serie B, non abbiamo il diritto di voto da nessuna parte, in nessun paese", lamenta Ljubiša.

Nel diseredato nord del Montenegro, tutti gli impieghi, o quasi tutti, sono offerti dall'amministrazione pubblica. I serbi del Kosovo non vi hanno accesso per via del loro status di "stranieri". "Non possiamo aspirare ad un lavoro se non quando non vi si è presentato nessun candidato montenegrino", spiega Ljubiša. L'unica che è riuscita ad oltrepassare questa barriera è Ivana, la figlia maggiore di Ljubiša, che ha conseguito una laurea in medicina in Montenegro e che sta preparando una specialistica in psichiatria, il tutto lavorando all'ospedale di Berane, abbandonato dai suoi medici, andati via in cerca di miglior fortuna in Occidente... Ivana ha intenzione di richiedere la cittadinanza montenegrina e sogna di intraprendere una carriera politica, nei ranghi del Partito democratico socialista del presidente Milo Đukanović. "Quando si vuol far politica, bisogna sempre stare dalla parte del potere", approva sua madre.

Ljubiša deve riuscire a far vivere la sua famiglia per tutto l'anno con quello che guadagna lavorando come cameriere nei ristoranti della costa nella breve stagione turistica, da giugno a settembre. Gli altri membri della comunità dei serbi del Kosovo non hanno alcuna possibilità di ottenere un lavoro, a meno non siano in possesso di una qualifica così preziosa come la laurea in medicina di Ivana. Un suo cugino, che abita in una casa lì vicino, ha conseguito studi in diritto internazionale presso l'Università del Montenegro, ma l'ufficio di collocamento non gli propone altro che lavori stagionali nel settore alberghiero o delle costruzioni. "E se rifiuto tre offerte consecutive, sono cancellato dai registri e perdo tutti i miei diritti alla protezione sociale", si indigna il ragazzo. "Siamo bloccati... Non possiamo andarcene né possiamo far qualcosa... Creare un'impresa? È impossibile quando non si ha un centesimo, soprattutto in una zona povera come quella di Berane!".

Un ritorno impossibile

Ljubiša non era né un militare, né un poliziotto - assicura di non aver mai preso parte ai combattimenti del 1998 e del 1999 - ma ritiene che sarebbe troppo pericoloso per lui tornare in Kosovo. Ciononostante, sogna di rivedere i suoi vecchi amici albanesi. "Quello che vorrei di più al mondo, è rivedere i miei vicini di casa. Non ho fratelli, ma per me loro sì che erano come fratelli, delle persone fantastiche... Il mio sogno sarebbe invitarli a casa mia: divideremmo tutto, darei loro la metà del poco che ho. Loro verrebbero e se ne riandrebbero, mentre noi, rifugiati, non possiamo tornare in Kosovo. Poco importa, però dovremmo poter scherzare tutti insieme ancora una volta!". Da dopo la fine della guerra, Ljubiša non ha più contatti con loro perché teme di metterli in pericolo nel caso li chiami. "Per gli albanesi è complicato avere delle relazioni con i serbi che se ne sono andati dal Kosovo", assicura.

Sono trascorsi vent'anni dal conflitto ma i postumi dei combattimenti pesano ancora sulle relazioni tra le due comunità. Oggi, all'incirca 100.000 serbi vivono ancora in Kosovo, di cui due terzi in enclavi sparse a sud del fiume Ibar. "La guerra era l'ultima cosa da considerare, credo che non abbiamo esplorato tutte le opzioni possibili. Milošević ha voluto questa guerra, l'ha pianificata. Si è riusciti a coinvolgere nel conflitto ogni serbo del Kosovo, ogni famiglia. Si sono distribuite le armi non perché le persone le usassero, bensì perché, alla fine della guerra, si potesse dire che tutti i serbi erano armati e avevano commesso dei crimini. Lo scopo della guerra era di compromettere i serbi del Kosovo", spiega la dottoressa Rada Trajković, una delle rare figure indipendenti della scena politica serba del Kosovo. "Mio nonno e gli anziani della mia famiglia mi hanno insegnato che i serbi e gli albanesi avevano sempre vissuto insieme e che avevano trovato dei modi per convivere, anche se non conoscevano la bandiera europea".

Dalla fine dei combattimenti, la stessa Rada Trajković ha partecipato alle nuove istituzioni messe in piedi dalle Nazioni unite, ma i tentativi di dialogo sono stati sabotati ogni volta dai nazionalisti dei due campi. "E con le voci che corrono su possibili scambi di territorio tra Pristina e Belgrado, i serbi che vivono a sud dell'Ibar hanno ripreso a vendere le loro proprietà. Ben presto, non saremo altro che un ricordo".