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Omicidi politici, conti da regolare, faide tra famiglie. E' un panorama drammatico quello descritto da IWPR in quest'inchiesta sulla violenza nella regione di Peja, Kosovo occidentale. Ed una sensazione generale: che chi compie crimini resti impunito

28/02/2005 -  Anonymous User

Di Jeta Xharra, Muhamet Hajrullahu e Arben Salihu - IWPR
Traduzione a cura di Osservatorio sui Balcani

Ramiz Muriqi, un uomo alto sulla cinquantina, sembra spaventato ed isolato nel suo appartamento a Peja, 80 km ad ovest della capitale del Kosovo Pristina.

"Sono stanco di continuare a guardarmi alle spalle, preoccupandomi di essere il prossimo sulla lista" afferma. Appesi alla sua cintura due telefoni cellulari ed una pistola automatica.

Peja - chiamata dai serbi Pec - è un'ampia città nella piana Dukagjini, Kosovo occidentale. In questa regione l'ordine pubblico è collassato e le sparatorie sono all'ordine del giorno.

Si utilizza la violenza per una grande varietà di motivi che vanno dalle rivalità politiche originatesi nel recente conflitto, al crimine organizzato, ai contrasti d'affari o alla pratica della vendetta di sangue.

E' a volte difficile definire il confine tra queste motivazioni, ma l'atmosfera generale è quella di una cultura gangster che tiene in ostaggio tutto il resto della società.

Ed il Kosovo non ha certo risparmiato nell'imporre la legge con la presenza sul campo sia di internazionali che della polizia kosovara, KPS. Ma né i primi né i secondi sono stati in grado di eliminare la violenza. I recenti fallimenti nel trovare i responsabili di alcuni casi di omicidio hanno lasciato in città la sensazione che i sicari possano agire nell'impunità.

E questo lancia un messaggio preoccupante: mentre i familiari delle vittime coltivano sempre più un desiderio di vendetta, rinfocolato dalla percezione di inazione da parte della polizia, in molti arrivano a pensare che la giustizia possa arrivare solo da un regolamento dei conti personale.

L'eredità della guerra

I fatti che hanno portato Ramiz Muriqi all'attuale difficile situazione sono indicativi della rilevanza del problema in questa parte del Kosovo, e mostrano inoltre come la politica del periodo della guerra si sovrapponga agli affari ed alla tradizione legata a clan feudali.

Quando IWPR lo ha intervistato Muriqi era appena rientrato dal funerale del suo amico Sadik Musaj, coinvolto in una sparatoria a Peja lo scorso 2 febbraio e poi morto per le ferite riportate.

Muriqi è molto cauto quando esce di casa, guida una macchina blindata che, racconta, in passato era appartenuta al Presidente della Bosnia Alija Izetbegovic.

Una seconda pistola è appoggiata su di uno scaffale nella sala da pranzo mentre suo figlio tredicenne mostra con orgoglio un fucile sniper. Tutto questo dà l'idea di una casa sotto assedio.

Muriqi racconta di aver subito tre tentativi d'assassinio, a causa di una campagna di vendetta contro i testimoni di un importante processo conclusosi nel dicembre del 2002.

Il processo, che ha visto coinvolti a Pristina anche giudici internazionali, vedeva come imputati 5 ex membri dell'Esercito di liberazione del Kosovo, UCK, accusati di violenze, torture ed uccisioni nei confronti di 4 membri di un più piccolo gruppo albanese di guerriglia, le Forze armate della Repubblica del Kosovo, FARK, nel giugno del 1999, quando il conflitto stava volgendo alla fine.

Il "gruppo Dukagjini", così erano chiamati i cinque imputati, era costituito da Ramush Ahmetaj, Idriz Balaj, Ahmet Elshani, Bekim Zekaj, e Daut Haradinaj - l'ultimo è il fratello di Ramush Hardinaj, uno dei comandanti principali dell'UCK e, dal dicembre 2004, Primo ministro del Kosovo. Le pene inflitte sono andate dai 3 ai 15 anni.

I testimoni dell'accusa durante il processo comprendevano Ramiz Muriqi, suo cugino Vesel, Sadik Musaj al cui funerale si era appena recato Ramiz, Tahir Zemaj, allora a capo delle FARK e l'ex membro dell'UCK Ilir Selimaj.

Di questi testimoni solo Ramiz e Vesel Muriqi sono ancora vivi.

Ramiz sostiene che i cinque detenuti ex membri dell'UCK stanno sistematicamente cercando vendetta.

"Tutti i testimoni del processo Dukagijni vengono lentamente tolti di mezzo" afferma Ramiz "gli unici rimasti oramai siamo io e mio cugino Vesel".

Vesel Muriqi, che ha subito violenze assieme agli altri quattro uomini delle FARK, è riuscito ad andarsene, dopo aver fornito testimonianze preziose durante il processo. Ha lasciato il Kosovo.

Dopo aver testimoniato Muriqi è stato posto sotto un programma di protezione speciale da parte dell'amministrazione internazionale del Kosovo, UNMIK.

Ma Ramiz specifica di aver rinunciato a quest'ultima poiché si era stufato di avere "soldati che mi controllavano tutto il tempo, non potevo avere una vita mia".

Testimoni cancellati dalla lista

Vi sono serie indiscrezioni secondo le quali questa serie di omicidi - cinque in tutto se si include anche l'uccisione di due poliziotti che investigavano sul caso - sia legata alle condanne subite dal gruppo Dukagjini.

Ma, soprattutto a causa del clima attuale, è ben difficile che vengano trovate delle prove per supportarle.

La cosa certa è che sebbene i crimini dei quali il gruppo era accusato siano orribili- e commessi nei confronti di altri albanesi e non nei confronti di combattenti serbi - il processo si è scontrato con l'opposizione di molti in Kosovo, dove gli ex membri dell'UCK vengono ancora visti come eroi.

I testimoni dell'accusa sono stati continuamente accusati di essere dei traditori dai sostenitori dell'ora disciolto gruppo di guerriglia albanese.

Un rapporto sul rispetto dei diritti umani redatto dalla missione diplomatica USA a Pristina e reso pubblico nel febbraio dell'anno scorso ha sottolineato una relazione tra la morte di Tahir Zemai ed il processo del quale è stato un testimone chiave.

Zemaj - in passato ufficiale dell'esercito jugoslavo - durante la guerra è stato leader delle FARK, gruppo creato prima dello scoppio della violenza dal governo kosovaro in esilio, allora guidato da Ibrahim Rugova, ora Presidente del Kosovo.

Con suo figlio Enis e suo nipote Hasan, Zemaj - allora 53enne - è stato ucciso in una sparatoria avvenuta a Peja nel gennaio 2003.

Le FARK hanno mantenuto rapporti stretti con la Lega democratica del Kosovo, LDK, di Rugova e suoi ex membri come Ramiz Muriqi ancora sostengono il partito.

Sua figlia lavora ad esempio come guardia del corpo del Presidente Rugova. Quando IWPR ha intervistato Ramiz quest'ultimo indossava ancora la maglietta blu delle FARK portata al funerale di Musaj in memoria del loro comune passato.

Nel rapporto statunitense sui diritti umani si indica che anche la morte di Ilir Selimaj sarebbe collegata al processo del 2002. La testimonianza di Selimaj è stata di importanza fondamentale per l'accusa, anche perché lui era dalla parte degli accusati al tempo in cui commettevano i crimini imputati.

Era infatti un membro dell'unità Dugagjini dell'UCK guidata da Daut Haradinaj ed ha confessato in aula che era presente quando vennero uccisi i 4 membri del FARK. E' stato rilasciato in seguito alla sua testimonianza.

Il 14 aprile del 2003 lui e sua zia Feride Selimaj furono uccisi in un'imboscata nel villaggio di Nabergjan (conosciuto anche come Pobrdje), nei pressi di Peja.

Lo stesso rapporto sottolinea anche l'uccisione di due poliziotti delle KPS che indagavano sulla morte di Zemaj.

Sebahate Tolaj e Isuf Haklaj, del dipartimento crimini gravi della regione di Peja, sono stati uccisi il 24 novembre del 2003 mentre si recavano al lavoro. Durante la guerra entrambi avevano combattuto sotto la guida di Zemaj nelle FARK.

Nel 2002 l'UNMIK ha creato una task force a Peja per indagare sulle violenze legate al processo del 2002. Quest'ultima ha fatto pochi progressi. Quando è stata smantellata non aveva portato a termine alcun arresto.

La polizia UNMIK ha reso noto che vi sono mandate di arresto sia in merito al caso dell'omicidio di Zemaj che quello di Selimaj. Ma i sospetti sono latitanti. La polizia assicura che questi due casi, assieme agli omicidio dei poliziotti dei KPS, sono ancora oggetto di indagine.

Cattivo sangue e politica

Durante una conferenza stampa tenutasi lo scorso 2 febbraio la polizia UNMIK ed il portavoce dell'amministrazione internazionale Neeraj Singh hanno confermato che anche la recente vittima Sadik Musaj era uno dei testimoni nel processo Dukagjini e che in merito alla sua uccisione era stato effettuato un arresto.

Le KPS hanno confermato ad IWPR però che il principale sospetto per l'uccisione di Musaj fosse ancora latitante, ed era un parente di uno degli appartenenti al "gruppo Dukagjini".

"La polizia attualmente ha effettuato l'arresto di un sospetto" ha affermato Singh, aggiungendo che "a questo punto non abbiamo alcuna indicazione sul movente dell'omicidio".

La famiglia di Musaj è invece convinta di conoscere il motivo: sostengono che è stata solo l'ultima uccisione di una faida tra loro ed il clan Haradinaj.

Datano il contrasto tra i due clan al 1999 quando Daut Haradinaj ha partecipato prima alla tortura e poi all'assassinio di Sinan Musaj, fratello di Sadik.

La condanna di Haradinaj nel 2002 non ha affatto sedato il conflitto.

La vedova di Sadik, incinta, ricorda un incidente avvenuto nel luglio del 2000, quando alcuni membri del clan di Haradinaj arrivarono sotto casa dei Musaj all'una di notte.

"Sono venuti fin dai noi cercando problemi", afferma. Non è poi chiaro cosa sia accaduto successivamente ma la polizia dell'UNMIK ha riportato che vi è stata "una sparatoria" durante la quale sia Ramush che Daut Haradinaj vennero feriti.

Ramush Haradinaj venne trasportato d'urgenza in un ospedale militare USA in Germania dove è stato curato.

Al suo ritorno dalla Germania ha reso pubblica ciò che sembrava una dichiarazione di pace nei confronti della famiglia Musaj, affermando al quotidiano kosovaro Zeri, il 19 giugno 2000: "Garantisco che nessuno dalla mia parte minaccerà o adotterà alcuna misura contro di loro".

L'uccisione di un membro della famiglia Musaj è arrivata in un momento scomodo per Ramush Haradinaj, a tre mesi dalla sua nomina come Primo ministro del Kosovo. Ha guadagnato quel posto grazie ad un accordo di coalizione tra il suo partito, l'alleanza per il futuro del Kosovo, AKK, e l'LDK.

Ramush Haradinaj ha reso noto che non è in alcun modo collegato all'omicidio di Sadik Musaj. "Ho avuto problemi con quella famiglia in passato, ma né io e neppure mio fratello (Daut) avremmo avuto alcun vantaggio da quest'omicidio", ha dichiarato Haradinaj durante un'intervista ad IWPR il 10 febbraio scorso.

Haradinaj ha in quell'occasione sottolineato come suo fratello fosse ancora in prigione e non aveva alcun desiderio di vedere allungata la sua condanna di 5 anni.

Haradinaj ha invece presentato una chiave di lettura alternativa dell'omicidio, affermando che quest'ultimo era probabilmente connesso a questioni legate alla mafia od a traffici illeciti.

"Essendo a conoscenza di chi era Musaj e del fatto che faceva affari con la malavita, non sarei sorpreso se l'omicidio fosse correlato a questioni di affari a Peja" ha affermato Haradinaj "spetta comunque alla polizia investigare e scoprire il perché dell'uccisione".

Nel clan dei Musaj, i fratelli della vittima affermano che vorrebbero vedere il killer dietro alle sbarre. Ma pochi si aspettano che la polizia farà alcun arresto e vi è sempre più pressione verso un'azione diretta, per soddisfare l'onore.

Ilir Balaj, il cui fratello Bashkim era uno dei membri FARK uccisi dal gruppo Dukagjini, sostiene che la questione è delicata. Lo spiega ospite nella casa della famiglia Musaj. "Sono i parenti più stretti che devono fare qualcosa in merito".

Temendo la vendetta la famiglia del sospetto omicida ha abbandonato il proprio appartamento in centro a Peja. Ma la storia che raccontano è molto differente e non ha nulla a che fare con il processo Dukagjini. Si sarebbe trattato esclusivamente di autodifesa.

IWPR ha rintracciato il fratello del principale sospetto per la morte di Musaj che ha affermato: "Mio fratello non ha sparato a Sadik Musaj. Si è solo difeso perché la guardia del corpo di Musaj ha aperto il fuoco dopo che Musaj e mio fratello avevano iniziato a discutere in modo molto animato".

L'uomo, che ha chiesto di rimanere anonimo perché teme per la sua incolumità ha negato che si sia trattato di un'uccisione su commissione del "gruppo Dukagjini".

"Se questo fosse stato un omicidio premeditato e mio fratello fosse stato pagato per portarlo a termine sarebbe stato molto stupido farlo nel pieno del giorno, in una delle zone della città più affollate dove chiunque poteva vederlo", ha affermato.

La famiglia sospettata è desiderosa di riconciliarsi al più presto con il clan Musaj.

In base alle norme medioevali codificate nel Canone di Leke Dukagjini ed ancora seguite da molti albanesi, il sangue deve essere vendicato a meno che al famiglia della vittima non accetti una compensazione.

La gente di Peja conosceva Sadik Musaj, e non tutti hanno espresso tristezza per la sua uccisione.

Una fonte all'interno dei KPS, che ha richiesto l'anonimato, ha affermato ad IWPR: "Non troverete molte persone a celebrare il lutto per la morte di Sadik Musaj. L'intera città lo conosceva come uno alla caccia di problemi". Una fonte di polizia a Pristina ha espresso posizioni simili.

Mentre alcuni degli intervistati hanno affermato che Musaj aveva una reputazione di uomo violento Nekibe Kelmendi, un membro dell'Assemblea del Kosovo dell'LDK, che lo conosceva, ha affermato: "Sadik poteva dare l'impressione di uomo pericoloso ma si è sempre comportato bene".

La cultura dei gangster

Qualsiasi sia la verità in merito a Sadik Musaj quella di gangster è una professione molto diffusa in questa parte del Kosovo.

I molti omicidi e crimini commessi nella regione di Peja dimostrano chiaramente che il crimine organizzato è molto diffuso, come diffusissime sono le armi da fuoco.

"Peja è situata vicino ai confini con il Montenegro e l'Albania, per questo la regione è fertile per il contrabbando di armi da fuoco, stupefacenti, sigarette ed altre cose" afferma Ali Berisha, dottore dell'ospedale di Peja ed anche rappresentante dell'AAK in città.

Parallelamente alla collocazione geografica è anche la cronica mancanza di lavoro che spinge molti verso il contrabbando.

Vi è poca attività agricola a Peja e nessuna grande industria, se non una piccola birreria.

Una fonte interna ai KPS, che ha richiesto l'anonimato, ha spiegato come il territorio sia diviso tra i vari clan, così ciascuno ha il suo campo d'azione.

Scontri avvengono quando un gruppo supera questi confini, o a volte quando l'animosità tra due gruppi si trasforma in violenza aperta.

"Vi è una chiara divisione tra Peja e Decan, ed ognuno di questi gruppi cerca di definire con chiarezza i confini della propria area d'influenza, nella quale possono stare certi di non essere disturbati dagli altri", afferma la fonte.

Le sigarette sono il miglior esempio del contrabbando a Peja. In un recente sequestro, un'unità militare italiana con base a Peja, ha trovato tre tonnellate di sigarette nascoste in un camion.

I gruppi criminali sono coinvolti non solo nel contrabbando ma anche nel racket.

IWPR ha parlato con molti leader comunitari a Peja e nei dintorni ed ha raccolto numerose storie di criminali locali che estorcono denaro dalle piccole attività economiche ed uno schema grazie al quale vengono occupati illegalmente appartamenti acquistati da albanesi, da serbi che lasciavano il Kosovo, ai quali poi viene chiesto del danaro per lasciarli nuovamente liberi.

Un leader locale ha raccontato come un imprenditore del posto sia stato costretto a pagare, due anni fa, 20.000 euro quale riscatto per la liberazione di un figlio che era stato rapito. "Naturalmente del caso non si seppe nulla poiché l'imprenditore era interessato a fare calare il silenzio per non rischiare di far arrabbiare i rapitori ed in modo di poter riabbracciare il proprio figlio".

Ramush Haradinaj afferma che il crimine organizzato è un problema serio. "Tutta Peja è a conoscenza del fatto che queste gang hanno raccolto soldi da molti imprenditori in cambio di protezione ed hanno in più occasioni minacciato altri imprenditori e le famiglie più benestanti", ha affermato.

A volte finiscono nel mirino anche imprenditori molto conosciuti. Lo scorso novembre Ekrem Lluka, imprenditore locale con interessi nel tabacco e nel settore assicurativo, è stato ferito in una sparatoria nella regione di Peja.

Spesso vengono feriti anche semplici passanti.

Nell'agosto del 2003 è avvenuto un omicidio che ha scioccato l'intera città di Peja. Tre persone, tra le quali due ragazzine di 11 e 14 anni, rimasero uccise dai colpi di due killer che hanno letteralmente tempestato di colpi una Mercedes ed un negozio, in pieno giorno.

Nessuno è mai stato arrestato e rimane ancora da definire chi fossero i killer. La gente del posto si limita a dire che l'incidente aveva a che fare con un regolamento di conti tra bande con affari contrapposti.

Una settimana più tardi un uomo è morto e due altri sono stati feriti quando la loro macchina è stata oggetto di una pioggia di proiettili nel villaggio di Jablanica e Vogel, presso Peja. Si ritiene che l'incidente fosse un semplice contrasto tra clan.

Questi conflitti tra famiglie sono un'atra fonte di violenza. Lo scorso 9 febbraio un uomo di nome Asllan Zenelaj è stato ferito a Decani in pieno giorno. Secondo i KPS si sarebbe trattato di una vendetta di sangue.

Armi da fuoco: reperibili ovunque

Le autorità sostengono che l'alto tasso di omicidi sia legato alla larga diffusione delle armi da fuoco.

Giuseppe Iacoviello, a capo del team investigativo dei Carabinieri a Peja, ha affermato che il recente sequestro di sigarette è stato fatto mentre la sua unità era alla ricerca di armi.

"Scopriamo ogni giorno molta merce di contrabbando mentre ricerchiamo armi da fuoco", ha affermato Iacoviello.

I Carabinieri affermano che hanno scoperto più armi illegali in questi ultimi mesi che non in tutto il 2004. Sono stati sequestrati anche due lanciamissili anti-carro ed altra strumentazione come walkie-talkies, uniformi militari nere, targhe e contanti.

Sandro Ottaviani, un ufficiale coinvolto in queste operazioni, afferma che gli italiani si aspettano di sequestrare ancora più armi da fuoco nei prossimi mesi. "E' probabile che il loro numero aumenterà, man a mano che la neve scioglierà".

"Se parte delle armi ritrovate possono essere ricollegate alla guerra del '99 non vi è però dubbio" afferma Iacoviello "che un gran numero di armi da fuoco che abbiamo sequestrato siano di recente produzione".

La polizia accusata di lassismo

Molti cittadini di Peja sono convinti che l'alto numero di crimini e di omicidi sarebbe molto più basso se la polizia facesse meglio il proprio lavoro e riuscisse ad individuare almeno alcuni dei colpevoli di queste violenze.

Gli intervistati locali, che comprendono anche un avvocato ed un medico, hanno descritto una generalizzata mancanza di fiducia sia nei confronti dei KPS che dell'UNMIK.

Sia la polizia locale che quella internazionale ribattono però che è difficile fare i proprio lavoro in modo efficace se ci si scontra con un muro di omertà da parte della popolazione civile.

"La gente avrà le sue ragioni per non parlare con noi, ma non capisco quali possano essere", ha affermato Thomas Dyle, direttori del dipartimento della polizia UNMIK sui crimini gravi.

Refki Morina, portavoce di KPS, ha affermato ad IWPR che dopo l'uccisione dei due funzionari di polizia Tolaj e Haklaj nel 2003, alcune persone del posto sono state viste aiutare gli assalitori nel far partire la macchina con la quale sono fuggiti.

Oltre alla paura legata alle intimidazioni, uno dei motivi per i quali nessuno si espone è la sensazione che la polizia sia troppo debole per opporsi a queste bande criminali ben organizzate.

"Perché rischiare la mia vita per aiutare la polizia a risolvere determinati crimini commessi tra bande rivali che hanno fatto enormi fortune grazie ai loro traffici illeciti?" si chiede un testimone oculare di una sparatoria avvenuta a Peja nell'agosto del 2003.

"Con il loro addestramento di tre mesi ed armamento scarso i nostri poliziotti non fanno che scappare per aver salva la vita quando incappano in crimini seri".

Qualcuno va oltre affermando che in casi come quelli degli omicidi dei membri delle FARK vecchie alleanze politiche pesano su come interviene la polizia.

Ramiz Muriqi sostiene che le prove raccolte sulla scena del tentativo d'assassinio nei suoi confronti avvenuto nel settembre del 2003 sono state successivamente "perse" dalla polizia.

"Il kalashinikov che è stato utilizzato nell'attentato è stato trovato, ma quando ho richiesto la documentazione in merito all'inchiesta, è risultato perso, come persa è risultata tutta la documentazione" ha ricordato Muriqi. "Vi sono diversi gruppi in seno ai KPS, che supportano una o l'altra parte, e non si sa mai con chi si sta parlando".

I Carabinieri di stanza a Peja fanno parte della presenza militare KFOR e non della polizia UNMIK.

Iacoviello ha confermato che non intendono assumersi la responsabilità per l'ordine pubblico. "Non è nel nostro mandato di venir coinvolti nelle indagini riguardanti crimini a meno che non riguardino rischi diretti corsi dal contingente KFOR". Iacoviello ha inoltre sottolineato come le ricerche di armi erano fatte per timore che le armi illegalmente entrate nel Paese possano essere utilizzate direttamente contro le truppe internazionali.

Ali Berisha, dell'AAK, è critico rispetto alla posizione degli italiani. "La KFOR italiana non vuole essere coinvolta", ha affermato. "Quando è stato richiesto in alcuni casi l'intervento della KFOR italiana ai locali è stato detto che vi era poco che poteva essere fatto se i membri dei clan decidevano di uccidersi gli uni con gli altri".

"In pratica sembra che l'attitudine del contingente italiano sia quella del non-intervento, nella speranza che i criminali si eliminino tra di loro", ha concluso Berisha.

Un civile che lavora nella KFOR quale elemento di collegamento tra i militari internazionali ed il pubblico kosovaro afferma che la polizia locale ed internazionale non può accusare la popolazione locale per nascondere la propria incapacità nel risolvere i casi.

"Vi è la tendenza a dare la responsabilità alla gente del Kosovo su questioni che rientrano invece nelle competenza della polizia UNMIK e della KFOR: giustizia e sicurezza", ha affermato il funzionario.

"Ai kosovari viene continuamente detto che sono loro il problema, non il sistema, come se fossero un branco di ritardati che non si abitueranno mai alla legge ed all'ordine".

Con un Kosovo ancora lontano dalla stabilità politica ed economica gli incentivi al contrabbando e ad altre forme di criminalità organizzata è probabile rimangano anche in futuro forti.

La disponibilità di armi da fuoco significa che gli omicidi possono andare avanti per sempre.

E né il membro di una famiglia guidato dall'emozione forte della vendetta, né il killer professionale che opera a freddo è probabile ci pensino due volte ad uccidere se hanno una sensazione forte d'impunità.