Un'azienda privata ha iniziato a stoccare rifiuti tossici in un deposito tra l'enclave serba di Goraždevac e il vicino villaggio albanese di Poçeshqe. E le due comunità hanno iniziato a protestare assieme in nome dell'ambiente e del futuro dei loro figli
(Pubblicato originariamente da Le Courrier des Balkans il 13 agosto 2019)
"Questa vicenda dei rifiuti ci ha avvicinati, ed è l’unica cosa positiva che ne è derivata", racconta Nenad Bukumirić. Lo troviamo seduto insieme a Nikoll Krasniqi sulla terrazza di una piccola trattoria nella piazza del villaggio di Goraždevac/Gorazhdec, un villaggio a maggioranza serba situato nei pressi di Peja/Peć nel Kosovo occidentale. I serbi e gli albanesi che vivono nell’area di Peć/Peja si sono mobilitati insieme per protestare contro la decisione dell’azienda Shala Swiss Oil – che gestisce diversi hotel e distributori di benzina nella zona – di depositare otto camion carichi di rifiuti tossici in un hangar nuovo di zecca, situato tra Goraždevac e il villaggio albanese di Poçeshqe. L’azienda prima aveva depositato i rifiuti in un’ex fabbrica di calzature e pelletteria a Peć/Peja, per poi decidere di spostarli nel nuovo hangar.
In Kosovo, la cui storia recente è segnata da atrocità compiute dal regime di Belgrado contro la popolazione albanese e da violenze perpetrate dagli albanesi contro i civili serbi, gli esempi di convivenza tra le due comunità restano un’eccezione.
Dei 38mila serbi che vivevano nel distretto di Peć/Peja prima della guerra, oggi ne sono rimasti meno di 1000. Nella città di Peć/Peja oggi vivono solo otto serbi, tra cui un prete ortodosso e sua moglie. Non c’è alcun cartello che indica la direzione per il villaggio di Goraždevac, dove vivono 670 serbi. Nell’area di Peć/Peja i ragazzi serbi e albanesi non interagiscono tra loro; i serbi non parlano l’albanese e gli albanesi non parlano il serbo. Il fatto che le due comunità si siano mobilitate insieme contro i rifiuti tossici sembra quasi un miracolo.
Per organizzare la mobilitazione è stato costituito un comitato, composto da cinque albanesi e due serbi, rappresentanti dei villaggi di Goraždevac, Poçeshqe, Millovanca, Vragoc, Kërstoc e Babiq. È stata inoltre lanciata una petizione che ha raccolto finora 600 firme, e da maggio ad oggi sono state organizzate nove manifestazioni di protesta. "Non vogliamo questo veleno, punto e basta. Vogliamo che i nostri figli crescano in un ambiente sano", affermano Nikoll Krasniqi e Nenad Bukumirić. "Portano qui i fusti di rifiuti nei convogli protetti dai vigili del fuoco, dalla polizia e dalla KFOR, come se noi non esistessimo", spiegano i due indicando l’ingresso dell’hangar, dove troviamo un addetto alla sicurezza che vive in una baracca situata a una cinquantina di metri dall’hangar.
La KFOR non ha precisato quali rifiuti siano stati depositati all’interno dell’hangar, pur ammettendo che si tratta di materie tossiche. I rappresentanti della KFOR assicurano tuttavia che non c’è alcun pericolo, spiegando che i vecchi fusti in metallo ormai arrugginiti sono stati inseriti in nuovi contenitori con doppio rivestimento in plastica. Dal canto suo, il ministero dell’Ambiente e della Pianificazione urbanistica kosovaro, che ha rilasciato l’autorizzazione alla costruzione del deposito, per ora tace. "Il peggio è che il numero di particella per la quale è stata rilasciata l’autorizzazione nel 2018 non corrisponde al terreno su cui è stato costruito il deposito", sostiene Nenad Bukumirić.
Il sindaco di Peć/Peja, Gazmend Muhaxheri, ha ricevuto i rappresentanti del comitato cittadino, ma ha fatto loro sapere di non poter intervenire. "Io provengo dalle fila dell’opposizione ed è il ministero che decide", spiega Muhaxheri, aggiungendo che è stata sporta una denuncia contro l’azienda Shala Swiss Oil, ma non è ancora stata avviata l’inchiesta perché il giudice per le indagini preliminari è in ferie. Sui muri dell’ufficio di Muhaxheri, che è membro della Lega democratica del Kosovo (LDK), sono affisse le fotografie di una moschea, una cattedrale cattolica e una chiesa ortodossa serba.
Il sindaco di Peć/Peja ha accettato la proposta di gemellaggio con la città di Šabac, situata nel nord-ovest della Serbia, che è praticamente l’unica grande città serba che si oppone al regime del presidente Aleksandar Vučić. Molte le attività previste, tra cui uno scambio di esperienze nella coltivazione delle fragole, un prodotto d’eccellenza dell’area di Šabac. Tuttavia, questo gemellaggio non piace a tutti. Gazmend Muhaxheri è stato minacciato da alcuni veterani dell’Esercito di liberazione del Kosovo (UÇK), che lo hanno accusato di “collaborare con i serbi“, mentre il sindaco di Šabac, Nebojša Zelenović, è stato accusato da alcuni tabloid vicini al governo di Belgrado di essersi “venduto agli albanesi“.
Secondo Shpetim Gashi, vicepresidente dell’organizzazione non governativa Council for Inclusive Governance impegnata nel facilitare il dialogo tra i funzionari serbi e albanesi del Kosovo, l’atmosfera generale nel paese non è per niente favorevole all’avvicinamento delle due comunità. Stando a uno studio realizzato dal Centro per gli studi sulla sicurezza di Pristina, i cittadini del Kosovo sono favorevoli all’avvicinamento tra le due comunità, ma temono che la convivenza non sia vista di buon occhio dalle autorità. Molte persone hanno paura di perdere il lavoro. "Ci vuole un cambio di potere a Belgrado così come a Pristina, perché le leadership attuali sono incapaci di instaurare la democrazia. Si nutrono di tensioni e conflitti, e sono complici dei criminali che controllano l’economia", sostiene Gashi.
Uniti contro la mafia
Nel frattempo, l’amministratore delegato di Swiss Shala, vicino all’Alleanza per il futuro del Kosovo (AKK) del premier dimissionario Ramush Haradinaj, cerca di forzare al silenzio gli albanesi che protestano contro il deposito di rifiuti tossici. L’obiettivo dell’azienda è quello di svuotare e demolire il prima possibile l’ex fabbrica di calzature per costruire al suo posto un edificio di cinque piani. Dall’altra parte, il principale partito dei serbi del Kosovo, la Srpska Lista (Lista serba), appoggiato da Belgrado, e l’Ufficio per il Kosovo del governo serbo sostengono la protesta, accusando il governo di Pristina di voler cacciare i serbi dal Kosovo, ignorando tuttavia il fatto che i rifiuti in questione rappresentano un pericolo anche per gli albanesi e che la mobilitazione di protesa ha unito le due comunità.
I rappresentanti della Srpska Lista continuano inoltre a ripetere che la coltivazione delle fragole non funzionerà mai, nonostante il parere positivo degli esperti di agronomia e l’interesse di molte famiglie. Se gli albanesi riuscissero a guadagnarsi la vita senza dover subire il ricatto della mafia, e se i serbi riuscissero a liberarsi dal controllo della Srpska Lista, forse il sistema clientelistico che vige in Kosovo inizierebbe finalmente a vacillare.