3 ottobre 2010, a Peja/Pec l'intronazione del nuovo patriarca serbo-ortodosso Irinej. Una cerimonia religiosa ma anche una festa di popolo. Festa triste, perché le migliaia di persone arrivate dovranno ripartire la sera stessa. In autobus. Un reportage
A Peja è una quieta domenica mattina di inizio ottobre, come tante. Clima tiepido, aria sonnacchiosa. Negozi e bar aperti, ma strade vuote da giornata festiva. Al Patriarcato di Pec invece è una giornata frenetica, con la corsa agli ultimi preparativi e l'emozione del grande evento. Migliaia di fedeli in arrivo, una folla mai vista dopo la guerra del 1999. E l'attenzione mediatica e diplomatica su una cerimonia – l'intronazione del nuovo Patriarca serbo-ortodosso Irinej – importante tanto per il valore spirituale quanto per le sue implicazioni politiche.
Peja-Pec è la stessa città, nel nord ovest del Kosovo. Ma sono anche due universi paralleli, a seconda della lingua usata: quello albanese, uscito vincitore dalla guerra e oggi sfacciatamente orgoglioso dell'indipendenza raggiunta. Quello serbo, in bilico tra recriminazione, rimpianto sordo e lenta accettazione dell'essere nuova minoranza. Due universi che stamattina appena si sfiorano, quasi ignorandosi.
Una mutua indifferenza che è un segnale incoraggiante per quanti temevano incidenti. La Kfor, missione Nato in Kosovo, era allarmata e all'inizio voleva gestire tutta la sicurezza dell'evento. Più saggiamente poi ha ceduto alla polizia locale il controllo sulla città, tenendo per sé solo quella del Patriarcato e dell'aeroporto militare di Giakova/Djakovica, destinato alle autorità invitate. Fa un certo effetto vedere i preparativi fuori dalla caserma centrale di Peja/Pec, poliziotti in gran parte albanesi disporsi a proteggere la massima cerimonia religiosa dei serbi, e l'arrivo in città di migliaia di loro. C'è perfino la squadra in mountain bike, con regolare caschetto in testa, destinata ai boschi retrostanti il Patriarcato.
Nel complesso religioso, con le tre chiese comunicanti, il monastero e altre strutture ricettive attorno al bellissimo giardino, un clima ugualmente sereno. Fedeli di ogni età, delegazioni religiose da tutti i paesi ortodossi ma anche un inviato Vaticano e il delegato della comunità islamica di Serbia, almeno quella riconosciuta dallo stato. La cerimonia interna è riservata agli ospiti illustri, mentre fuori ci sono due maxischermi con la diretta tv. Interessante osservare l'arrivo delle autorità, con l'accoglienza tiepida riservata a Boris Tadic, il Presidente serbo che qui avvertono troppo morbido sul tema del Kosovo. E di contro l'acclamazione al principe Aleksandar, ultimo esponente della vecchia dinastia dei Karadjordjevic. Un nazionalismo all'apparenza più nostalgico che aggressivo.
Certo, c'è il grande striscione “Kosovo Gerusalemme serba”. Aquile nere e bandiere monarchiche si aggirano per tutta l'area. Ma le parole di Irinej sono pacate, chiamano alla sopportazione e all'unità spirituale più che alla rivendicazione territoriale. Si appella alle autorità internazionali per una convivenza giusta in Kosovo, dove “c'è spazio per tutte le nazioni”. La stampa albanese sottolineerà invece altre parole, avvertite come provocatorie. I toni però restano bassi.
Fuori dalla formalità, poi, un clima di festa, seppure strozzata. Molti anche tra i pope non reggono alle ore di cerimonia, e si sdraiano ai lati tirando fuori i panini. All'esterno dal complesso sacro c'è chi ha organizzato banchetti con birra, carne e sigarette. Un pic nic inusuale, festa di popolo a tutto tondo. Ma festa controllata, attorno le mura e i militari italiani della Nato. Qualcuno è qui dopo oltre dieci anni. Ieri, mi racconta un amico, suo zio è tornato per la prima volta in città dalla guerra. E' andato a cercare la casa di famiglia, ma non riconosceva nemmeno la via. Altri si abbracciano, si raccontano frammenti di vite sparse tra Montenegro, Serbia e più in là, fino in Canada o Australia. L'orgoglio di essere di nuovo qui, “in terra serba”, si mescola alla consapevolezza che stasera ripartiranno. E che il Patriarcato tornerà ad essere per loro solo un'isola nel mare albanese a sud di Mitrovica.
La partenza, ecco forse il momento più triste. Una lunga fila di autobus che lentamente si mette in moto. I gas di scarico anneriscono l'aria con una scia melanconica. A gruppi di quattro o cinque i bus vengono scortati dalla polizia kosovara attraverso il centro città. Qualche albanese siede curioso ai margini delle strade, altri irridono sventolando la bandiera nazionale, quella kosovara o quella americana. Un clima quasi più ironico che ostile. In seguito voleranno anche dei sassi, ma per fortuna non si registrano incidenti di rilievo. Difficile dire se sia per convinzione o per calcolo politico fatto dai leader delle due parti. Ai lati della strada anzi qualcuno sembra mostrare un rimpianto, su quegli autobus ci sono amici di un tempo, o vicini di casa... C'è pure chi viaggia da Belgrado con la sua automobile, e perfino tre signore in taxi. Lo fermano ai margini di una strada, escono rapide per uno sguardo. Forse era casa loro. In lacrime risalgono e partono.
Continuo a guardare la fila degli autobus. Potrebbe apparire un eco lontano delle pulizie etniche negli anni novanta. Ma ricorda anche, pur nell'assoluta diversità dei temi, le immagini più recenti delle migliaia di bosniaco musulmani che partecipano alla cerimonia dell'11 luglio a Srebrenica, in ricordo del genocidio subito, e poi veloci devono ripartire. Attorno è Republika Srpska, terra che faticano a sentire loro. Quasi un'inversione delle parti, però il senso di tristezza è lo stesso. Non tornerà la guerra nei Balcani, anzi il messaggio di questa giornata è che il Kosovo – tranne forse l'area a nord di Mitrovica – si avvia ad una lentissima abitudine alla coesistenza. Resteranno però ancora a lungo le file degli autobus. E i brutti ricordi che ci viaggiano sopra.