Mitrovica nord - © Giannis Papanikos/Shutterstock

Mitrovica nord - © Giannis Papanikos/Shutterstock

Preoccupazione in Kosovo per l'ennesimo innalzarsi della tensione tra autorità kosovare e minoranza serba. La crisi in Ucraina può rappresentare una spinta per rilanciare le prospettive di pace e stabilità di Serbia, Kosovo e della regione?

01/08/2022 -  Francesco Martino

Barricate, sirene di allarme, colpi d’arma da fuoco, il tutto amplificato dal tam tam dei social media e dall’atmosfera di ansia generata dalla guerra in Ucraina. Per chi non segue con continuità la situazione nella regione, l’ennesimo picco di tensione tra Kosovo e Serbia registrato ieri sera è apparso come il prologo di un nuovo conflitto armato in Europa, tanto più che tra le notizie rimbalzate in fretta nello spazio virtuale – ma poi velocemente smentita – c’era quella del dispiegamento di unità dell’esercito di Belgrado ai confini del Kosovo.

Per fortuna la situazione, anche se da non sottovalutare, non sembra sulla soglia di sfuggire di mano. La nuova crisi, come detto, è il prodotto di irrisolte tensioni di lungo corso tra Belgrado e Pristina, esacerbate però da un contesto internazionale turbolento. Il casus belli, ancora una volta è frutto della strategia di “reciprocità” delineata dal premier kosovaro Albin Kurti: se la Serbia attua una misura nei confronti dei cittadini kosovari, lo stesso deve avvenire anche in direzione contraria.

Le autorità di Pristina hanno quindi annunciato che dal primo agosto a tutti quelli che intendevano entrare in Kosovo con una carta d’identità o un passaporto serbo sarebbe stato emesso un documento provvisorio di transito, valido per tre mesi. Al tempo stesso, dalla stessa data di oggi non sarebbe più stato tollerato l’uso di targhe serbe per chi è residente in Kosovo, una pratica fino ad oggi largamente accettata soprattutto nelle municipalità del nord a maggioranza serba.

Come per la “crisi delle targhe” scoppiata nel settembre del 2021, la decisione del governo Kurti ha scatenato in fretta la reazione rabbiosa di parte della popolazione serba, soprattutto a nord del fiume Ibar. Come in un film già visto, le strade di accesso ai punti di frontiera sono state bloccate da barricate improvvisate, colpi d’arma da fuoco sono stati esplosi (ma senza provocare feriti) in direzione delle forze di polizia kosovara nell’area, poi rafforzate in serata dalle squadre dei corpi speciali, le sirena di allarme ha lungamente ululato nei cieli della parte serba di Mitrovica, il tutto mentre iniziava il balletto dei tweet allarmistici, delle dichiarazioni politiche e dei tentativi di risoluzione diplomatica.

Una via d’uscita, anche se provvisoria, è emersa già nelle prime ore di stamattina, quando il governo kosovaro – dopo consultazioni sia con rappresentanti dell’Ue che degli Stati Uniti – ha annunciato di aver posticipato di un mese l’entrata in vigore delle nuove disposizioni “a condizione che tutte le barricate vengano rimosse, e che la libertà di movimento venga ristabilita” . Ad appena qualche ora di distanza, l’agenzia stampa serba Tanjug riferiva che, nonostante il permanere di un clima teso, il processo di rimozione delle barricate improvvisate era già in corso.

Come prevedibile, la mossa di Kurti è stata accolta con commenti positivi da parte del blocco euro-atlantico: l’Alto rappresentante Ue per gli affari esteri, Josep Borrell ha lodato la decisione di Pristina, invitando poi tutti gli attori a risolvere le incomprensioni “all’interno del dialogo mediato dall’Unione europea”. Una posizione rilanciata dall’ambasciatore americano a Pristina, Jeffrey Hovenier, che ha ribadito: “La strada giusta passa sempre attraverso il dialogo civile”.

Già durante i momenti di maggiore nervosismo, i comandi della KFOR, la missione militare a guida Nato dispiegata in Kosovo fin dal 1999, avevano contribuito a gettare acqua sul fuoco, con un comunicato stampa in cui aveva riaffermato il proprio ruolo di garante della stabilità in Kosovo, in linea con il proprio mandato.

Un invito al dialogo era arrivato nella serata di ieri anche da parte del presidente serbo Aleksandar Vučić, che ha parlato alla stampa dopo essersi incontrato col Capo di stato maggiore dell’esercito serbo per discutere della situazione sul campo. “Credo che ci saranno presto buone notizie”, ha dichiarato Vučić, per poi aggiungere, “spero che già domani la situazione rientrerà, e che saremo in grado di raggiungere una soluzione di compromesso”. Le autorità di Belgrado hanno poi accusato quelle kosovare di diffondere disinformazione, negando in modo assoluto che, come annunciavano notizie circolate su social media, l’esercito serbo si fosse mosso in direzione del confine col Kosovo.

Vučić ha poi ringraziato esplicitamente il ministero degli Esteri russo, che “ha reagito nel modo giusto” a quanto stava accadendo in Kosovo. Proprio le autorità di Mosca, infatti, erano intervenute ieri con durezza per condannare quelle che, secondo la portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova, non erano altro che “provocazioni” da parte occidentale.

Anche il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha reagito oggi con una buona dose di scetticismo sulla soluzione di compromesso trovata nella notte: “Per ora siamo sfuggiti ad un’escalation, ma il problema è solo rimandato di un mese, ed è ora della massima importanza che tutte le parti in gioco mantengano la calma”, ha dichiarato Peskov ai giornalisti in una conferenza stampa tenuta a Mosca.

Proprio il contesto internazionale, sconvolto dall’invasione russa dell’Ucraina, sembra l’elemento di maggior rischio nell’attuale rigurgito della tensione di lungo corso tra Serbia e Kosovo. Dopo le speranze suscitate dagli accordi di Bruxelles del 2013, mediati dall’Ue, una risoluzione complessiva del conflitto tra Belgrado e Pristina è scesa sempre più in basso nella lista di priorità di Bruxelles e Washington. L’attenzione torna ora, a causa della guerra in Ucraina, a farsi alta, con i Balcani occidentali percepiti come possibile “secondo fronte” di scontro in Europa tra Occidente e Russia.

Probabilmente il riaccendersi di un conflitto armato tra Serbia e Kosovo, con la prima candidata ufficialmente alla membership europea, seppur con mille distinguo, e le truppe Nato schierate sul terreno, è oggi una prospettiva irrealistica. Non per questo la situazione, incancrenita da anni di stallo e aspettative mancate, è priva di rischi. La crisi in Ucraina ci ha ricordato che i Balcani occidentali, abbandonati a se stessi, possono tornare ad essere un’area problematica ed instabile: forse è il momento giusto di trasformare le rinnovate preoccupazioni nella spinta per rilanciare le prospettive di pace e stabilità di Serbia, Kosovo e della regione nel suo complesso all’interno del progetto europeo.