Le dimissioni del premier kosovaro Ramush Haradinaj, convocato dalla Corte speciale per i crimini UÇK, aprono una crisi politica che si annuncia lunga e complessa. Vittima collaterale dell'impasse sarà, quasi sicuramente, il dialogo con la Serbia
A meno di due anni dalle ultime elezioni, lo scorso 23 luglio il premier kosovaro Ramush Haradinaj ha presentato le proprie dimissioni. Haradinaj si era già dimesso da primo ministro nel marzo 2005, durante il suo primo mandato: allora era stato incriminato dal Tribunale internazionale per l'ex Jugoslavia per crimini di guerra, per fatti risalenti al conflitto armato del 1998-99. Il processo, segnato da accuse di intimidazioni nei confronti dei testimoni, era stato ripetuto due volte, ma alla fine Haradinaj era stato assolto da ogni accusa.
Anche stavolta le dimissioni sono legate alla convocazione di un tribunale, la Corte speciale sui crimini dell'UÇK con sede all'Aja. Al momento, Haradinaj è stato solo interrogato dai giudici, che non hanno ancora sollevato accuse nei suoi confronti. Il premier, però, ha deciso di fare comunque un passo indietro.
“Non posso permettere di essere interrogato nel mio ruolo di primo ministro del Kosovo: ecco perché ho deciso di restituire il mandato agli elettori”, ha dichiarato lo stesso Haradinaj ai media kosovari dopo essere tornato dall'Aja. Le sue dimissioni improvvise hanno colto di sorpresa molti leader politici, in particolare tra gli alleati di governo.
Dopo le dimissioni di Haradinaj, nessuna iniziativa politica è stata ancora intrapresa dal presidente Hashim Thaçi per cercare il consenso tra le principali forze politiche, nel tentativo di tirare fuori il paese dall'impasse.
Una crisi dai contorni indefiniti
Secondo Naim Rashiti, direttore del Balkan Policy Research Group, think-tank con un focus sui rapporti Kosovo-Serbia, l'attuale crisi politica rischia di trascinare e rallentare altri importanti processi politici. “Nell'attuale sistema politico alcune decisioni vengono prese troppo in fretta, e senza coordinazione tra le istituzioni”, sostiene Rashiti. “In conseguenza, le dimissioni di Haradinaj hanno provocato la caduta del governo, ma senza una road-map per portare il paese alle elezioni”.
Alla base del problema, secondo Rashiti, ci sono delle lacune legislative che rendono la situazione difficile da interpretare e gestire. “Non ha senso che il parlamento debba forzatamente sciogliersi se cade il governo. Questa situazione deve essere chiarita, perché non possiamo avere elezioni anticipate ogni volta che un premier si dimette”.
Secondo l'avvocato Dastid Pallaska la mancanza di chiare disposizioni costituzionali deve essere affrontata con spirito pratico. “Date la situazione corrente, è ovvio che il Kosovo ha bisogno di avere un esecutivo funzionante fino alle prossime elezioni. Una nuova maggioranza potrebbe essere cercata all'interno dell'attuale parlamento, oppure si potrebbe procedere con un voto di sfiducia per forzare la strada verso nuove elezioni”, sostiene Pallaska.
Secondo Rashiti i partiti in parlamento dovrebbero tentare di creare una nuova alleanza di governo. “Hanno diritto di tentare di creare una nuova maggioranza, e solo se questo si rivela impossibile andare a nuove consultazioni anticipate”.
Con l'Alleanza per il Futuro del Kosovo (AAK) di Haradinaj fuori dai giochi, però, è difficile che il Partito Democratico del Kosovo (PDK) riesca a trovare un nuovo junior-partner per governare. Le due principali forze di opposizione, la Lega democratica del Kosovo (LDK) e il movimento Vetëvendosje (Autodeterminazione) erano già in procinto di presentare una mozione di sfiducia nei confronti dell'esecutivo Haradinaj. Sembra quindi che le elezioni anticipate siano inevitabili.
“La crisi appena iniziata sfocerà in elezioni anticipate, ma non subito. Con tutta probabilità si creerà una lunga attesa, dovuta alle lacune istituzionali, che potrà essere risolta solo grazie all'iniziativa politica”, sostiene Rashiti. “È difficile prevedere se le nuove elezioni si terranno questo autunno o la prossima primavera. Considerato che anche la Serbia andrà alle urne in primavera, il processo di dialogo tra Pristina e Belgrado resterà quasi sicuramente bloccato nei prossimi mesi”.
Dialogo al palo
Il processo di normalizzazione dei rapporti tra Kosovo e Serbia è al palo dal novembre 2018, quando il governo Haradinaj ha deciso di imporre dazi del 100% sui prodotti importati dalla Serbia, come atto di ritorsione contro le politiche di Belgrado che contrastano il riconoscimento internazionale del Kosovo.
Secondo Haradinaj, la decisione voleva evitare la partizione del paese, o la creazione di una “Republika Srpska” all'interno del Kosovo. In molti, però, hanno bollato la controversa iniziativa come puro populismo e ricerca di facili consensi in vista delle prossime elezioni.
Il dialogo tra Pristina e Belgrado è rimasto stagnante fin dalla nascita del governo Haradinaj, con pochi segni di buona volontà da entrambe le parti. “Non credo che la comunità internazionale possa risolvere magicamente la situazione. Anche l'Ue non sembra in grado di agire efficacemente, né di avere contropartite da offrire al Kosovo o alla Serbia”, sostiene Rashiti.
“In Kosovo il premier ed altri attori politici chiave non sono soddisfatti delle modalità con cui il dialogo è stato portato avanti, né con l'attuale status del Kosovo. I recenti scossoni serviranno se non altro a riorganizzare l'agenda politica”, continua Rashiti. “Uno dei problemi principali, è che in Kosovo pochi vogliono che il proprio futuro europeo, così come il processo di state-building, siano legati a doppio filo alla risoluzione dei rapporti con Belgrado, come voluto dall'Ue”.
In un'intervista rilasciata ad OBCT alcuni mesi fa, l'ex diplomatico statunitense James Hooper sosteneva che il governo del Kosovo non solo deve sospendere i dazi imposti alla Serbia, passo minimo per riaprire il dialogo con Belgrado, ma deve fare qualcosa in più. “Al momento il Kosovo sta chiedendo di essere riconosciuto dalla Serbia come precondizione per riaprire il dialogo. Il riconoscimento però non può essere una precondizione, ma lo sbocco dei negoziati”. “Con tutta probabilità il governo di Pristina se ne rende conto”, sosteneva Hooper, “e vuole ottenere un'importante contropartita in cambio della rinuncia ai dazi”.
L'élite kosovara schiacciata dalle sfide
Kosovo e Serbia sono entrati in un processo negoziale di tipo nuovo, nel quale le opzioni diplomatiche tradizionali difficilmente porteranno a risultati soddisfacenti. Sta a Pristina promuovere iniziative creative per porre le basi ad un rapporto di lungo corso accettabile sia ai cittadini kosovari che serbi. In questo contesto, insistere con i dazi è contro-producente e basato sull'incapacità di capire veramente i termini del negoziato.
Sembra però che al momento l'élite politica del Kosovo sia schiacciata dal peso delle tante, troppe sfide accumulatesi sul suo cammino: Corte speciale, questioni irrisolte con la Serbia, riconoscimenti internazionali allo stallo, mancanza di prospettiva europea, sviluppo economico insufficiente, fatica nel costruire e consolidare le istituzioni dello stato.
Una situazione pesante che le dimissioni di Haradinaj e il lungo processo per arrivare ad un nuovo esecutivo non rendono più semplice.