Matteo Mancini è coordinatore del progetto Pedakos in Kosovo, dedicato alla prima infanzia. Con lui abbiamo parlato dei risultati raggiunti sino ad ora, dell’importanza di una formazione di qualità e dell’efficacia degli scambi internazionali
Da più di due anni state lavorando al progetto Pedakos, ce lo puoi raccontare brevemente?
Pedakos - finanziato dall’Agenzia italiana per lo sviluppo AICS - è al terzo e ultimo anno di implementazione. È stato fortemente condizionato dalla pandemia che ne ha limitato a lungo le possibilità: di fatto la situazione pandemica ne ha condizionato la maggior parte dato che il progetto è cominciato nel settembre 2019. Abbiamo però imparato a convivere con questa situazione, sperimentando anche soluzioni creative.
Il progetto contribuisce al miglioramento dei servizi prescolari della scuola dell’infanzia nel paese, intervenendo sulla formazione del personale scolastico, sullo scambio di buone pratiche e sull’integrazione tra pubblico e privato in ambito educativo. Nel far ciò il progetto racconta e promuove il Reggio Emilia Approach , esperienza riconosciuta a livello internazionale e filosofia educativa incentrata sulle potenzialità e sui diritti dei bambini. Processo che il progetto vive in un’idea di scambio: il Reggio Emilia Approach non vuole essere trasmesso in maniera didascalica, è piuttosto presentato, raccontato e approfondito per allargare orizzonti e prospettive delle istituzioni e del personale delle scuole kosovare coinvolte.
Pedakos, infatti, fa affidamento su un sistema di partenariato molto solido, che da una parte valorizza e sfrutta le eccellenze del nostro territorio, a Reggio Emilia - includendo attori chiave dell’esperienza educativa che caratterizza la città - e dall’altra le istituzioni rilevanti e i fornitori di servizi educativi in Kosovo. Al progetto partecipano 15 scuole pilota, il ministero dell’Educazione, la Facoltà dell’educazione dell’Università di Pristina e l’Istituto pedagogico del Kosovo: tutti loro hanno dimostrato forte interesse a contribuire alla crescita del sistema pedagogico del Kosovo.
Avete favorito numerosi scambi tra esperti che dall’Italia sono venuti in Kosovo, alcuni anche in presenza nonostante le difficoltà sottolineate: quali le loro reazioni a questa esperienza?
Bisogna dare merito a entrambe le parti coinvolte, sia agli esperti italiani che hanno partecipato al progetto che alle controparti kosovare, dato che per quasi due anni non si sono potute organizzare attività in presenza, che per un progetto del genere sono fondamentali.
Io sono arrivato in Kosovo a cavallo tra la fase più complicata in termini di possibilità operative e quella in cui si sono finalmente potute organizzare attività in presenza. Credo il ritorno all’attività in presenza sia stato molto stimolante per tutti. C’è stata una grande iniezione di energia e molta disponibilità a rimettersi in gioco dopo che il molto tempo passato davanti allo schermo del computer aveva frustrato le motivazioni dei più.
Quindi entusiasmo ed energia e, soprattutto nelle missioni in Kosovo, grande disponibilità degli esperti all’ascolto, nella consapevolezza che l’esperienza di cui sono portatori è complessa anche da raccontare e trasmettere a parole, in quanto viene da un contesto particolare, distante e differente rispetto al modus operandi del Kosovo e non solo.
Quale la reazione di pedagogiste e educatrici kosovare?
Alla fine dello scorso anno scolastico, dopo diversi mesi di lavoro da remoto, era percepibile una certa stanchezza; con lo sbloccarsi della situazione pandemica e l’arrivo dei formatori italiani in autunno, come dicevo, c’è stata un’iniezione di entusiasmo che è andato crescendo, creando anche le condizioni per una sempre maggiore riflessione interna al gruppo di scuole coinvolte nel progetto. Il tutto si traduce nella crescita di una massa critica rispetto alla situazione delle scuole in Kosovo, a mio avviso premessa necessaria al miglioramento del sistema educativo in Kosovo.
Nelle scuole per l’infanzia kosovare è prevista la figura di un pedagogista?
Alcune scuole con cui collaboriamo lo hanno, la maggior parte no. Alcune scuole fanno riferimento all’università e ai suoi docenti come guida pedagogica. So che a Pristina ci sono pedagogiste che si occupano di più scuole pubbliche; al di fuori di Pristina non ne ho incontrate. Mi sento di dire che non sia una figura standard, prevista sempre e comunque.
Si parlava di massa critica... hai notato all’interno delle istituzioni kosovare disponibilità al confronto e al cambiamento in merito al settore dell’educazione per la prima infanzia?
Un dato di fatto negli ultimi anni è stato quello dell’instabilità politica. Il progetto Pedakos, sin dallo studio di fattibilità nel 2017/18, ha visto succedersi quattro governi diversi. Diventa quindi difficile portare avanti una progettualità coerente.
Il trend recente è comunque di maggiore attenzione all’educazione dell’infanzia, con intenzioni e investimenti importanti: dalla costruzione di nuove strutture scolastiche per premettere a più bambini di frequentare le scuole per l'infanzia, all’elaborazione di una nuova legge, un nuovo piano strategico e un nuovo curriculum per il settore prescolare. C’è, quindi, interesse e l’intenzione all’interno del ministero di investire sull’istruzione dell’infanzia, la quale è sempre stata abbastanza negletta.
Pedakos stesso nasce anche dalla pubblicazione qualche anno fa di dati allarmanti sull’istruzione nel paese: da quel momento si è avuta maggiore consapevolezza rispetto alla necessità di intervenire e questo è quanto pian piano si sta delineando.
Un momento simbolico di questi anni di progetto?
Sono senza dubbio le visite studio organizzate questa primavera che hanno permesso alle scuole e i partner istituzionali di visitare la realtà di Reggio Emilia. Fanno seguito ad un primo scambio avvenuto in ottobre quando abbiamo accompagnato in Italia una delegazione di quattro professoresse della facoltà di Educazione dell’Università di Pristina.
Penso che le visite delle direttrici ed educatrici delle scuole con le quali collaboriamo in Kosovo rappresentano il punto più alto dello scambio che il progetto cerca di promuovere. Erano del resto la premessa di tutto il progetto, infatti già a marzo 2020 le si stava organizzando. L’idea era quella di partire dalla visita studio e da lì costruire il percorso formativo. Hanno dato la possibilità alle educatrici e ai partner istituzionali di approfondire e di comprendere in definitiva ciò di cui si sta parlando, in modo da poter essere più ispirati nello svolgimento della loro professione.
A questo proposito, voi lavorate con scuole con caratteristiche istituzionali diverse: pubbliche, private, alcune nate su iniziativa di un gruppo di genitori… avete trovato grandi differenze?
Differenze ve ne sono. A livello pratico, le dimensioni delle scuole pubbliche sono maggiori rispetto a quelle gestite da associazioni, o dalle cosiddette a base comunitaria. Le scuole pubbliche sono inoltre in alcuni casi affollate. Inoltre ad esempio le scuole a base comunitaria con sede a Pristina lavorano con personale più giovane che ha avuto la possibilità di seguire un diverso percorso universitario, a seguito in particolare degli sviluppi accademici degli ultimi anni.
Ci sono degli aspetti su cui pensi si sia riusciti a fare la differenza?
Nel nostro piccolo e rispetto ai soggetti con cui ci siamo confrontati, credo che un’evoluzione da noi sostenuta è relativa alla maggiore consapevolezza rispetto all’importanza dell’educazione dell’infanzia e al ruolo di pedagogiste ed educatrici.
Da una parte quindi l’importanza che i servizi prescolari hanno per lo sviluppo dei bambini: è dimostrato che l’età tra gli 0 e i 7 anni è cruciale per lo sviluppo del bambino e servizi all’infanzia di qualità predispongono anche i bambini ad un migliore percorso scolastico.
D’altra parte, è stata messa in risalto anche la responsabilità delle educatrici nell’accompagnare e sostenere questo processo, valorizzando le infinite capacità dei bambini, assecondandole e sostenendole, invece di lavorare per schemi prestabiliti volti alla semplice trasmissione di informazioni e conoscenza dall’adulto al bambino.
Spesso, se si va ad analizzare come una società approccia l’educazione dei più piccoli, ci si può fare un’idea rispetto a dove vuole andare. Ti sei fatto un’idea rispetto al Kosovo in questa prospettiva?
Ci provo, anche se penso di aver già toccato in maniera trasversale alcuni nervi: credo che, in quanto paese istituzionalmente nuovo, in Kosovo abbia potuto prevalere finora, nonostante l’orgoglio, una certa insicurezza, tradottasi in una tendenza all’accentramento e al controllo da parte delle istituzioni, che ha probabilmente lasciato poco margine d’azione a scuole ed educatrici. Ritengo che ora - con maggiore stabilità istituzionale - ciò stia cambiando, a favore di un maggior decentramento istituzionale e amministrativo, che spero trovi le scuole pronte e responsabilizzate.
Anche il tema della formazione di qualità, in un settore spesso negletto, sta emergendo sempre più, e l’offerta e le opportunità aumentano. Il trend è quindi di una maggiore attenzione verso i servizi dell’istruzione.
Sta anche venendo meno una certa “bulimia” rispetto a quello che viene da fuori, ovvero alla tendenza di riproporre acriticamente ciò che viene dall’estero: penso che ora vi si attinga in maniera più consapevole.
Sono tre temi, quello dell’accentramento-decentramento, attenzione alla qualità e atteggiamento più critico che penso possano essere estesi anche al di là dello specifico settore dell’educazione dell’infanzia.